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Europa Nazione come antidoto alla globalizzazione

PROLOGO

In ogni epoca l’umanità si è messa, autonomamente e inconsapevolmente, una spada di Damocle sulla testa che, di volta in volta, ha assunto termini diversi. Molte spade si sono dissolte gradualmente e altre, invece, hanno resistito alla mutevolezza dei tempi, sommandosi a quelle successive. Attualmente l’umanità soggiace alla minaccia di vecchie e arrugginite spade e a quella più recente e più pericolosa, la globalizzazione, correndo seri rischi per il suo futuro. La globalizzazione va distinta dalla tirannide praticata da pochi uomini sulle masse, essendo di essa una variabile indipendente, anche se, per naturale flusso osmotico, ne rappresenta un valido e graditissimo alleato. Il rigurgito del sovranismo è la risposta istintiva che la società contemporanea contrappone ai disastri provocati dalla globalizzazione. Come ogni risposta che risenta dei condizionamenti contingenti, però, anche il sovranismo presenta delle ombre e la confusione che scaturisce da questo confronto-scontro è sotto gli occhi di tutti, evocando l’esempio del gatto che si morde la coda: popoli sempre più disorientati, confusi e incapaci di comprendere le complesse dinamiche di un mondo in rapidissima trasformazione, non riescono a scegliere una classe politica qualificata, (anche a causa di una scarsa offerta, preferendo, gli uomini di alta qualità, tenersi lontano dalle squallide arene politiche) e si tirano costantemente la zappa sui piedi; una classe politica accomunata da un unico elemento sostanziale, la mediocrità, che sempre genera una malsana gestione del potere, corre dietro agli umori degli elettori immaturi, non avendo né il coraggio né la capacità di guardare lontano. Il problema è planetario e l’unica prospettiva risolutrice sarebbe un’Europa unita che fungesse da “faro del mondo”, secondo i principi più volte enunciati in questo magazine (1). Con siffatti presupposti, però, tale prospettiva perde gradualmente consistenza, alimentando la deriva di miliardi di persone, che sempre più assomigliano a naufraghi su barche senza timonieri.

L’ESSENZA DEL FENOMENO

“L’americanizzazione del mondo, l’omogeneità dei modi di produzione e di consumazione, il regno della merce, l’estensione del mercato planetario, l’erosione sistematica delle culture sotto l’effetto della mondializzazione mettono in pericolo l’identità dei popoli molto di più dell’immigrazione”. (Alain de Benoist)

“Noi non siamo in una società “multiculturale”, ma in una società contemporaneamente multi-etnica e tristemente monoculturale”. (Alain de Benoist)

“La globalizzazione è una procedura che permette ai potenti di sfruttare i deboli”. (Alejandro Llano – filosofo, docente presso l’università di Pamplona, fratello del più famoso filosofo Carlos Llano Cifuentes  (1932-2010)

“La globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli uomini e della biosfera”. (Serge Latouche, economista e filosofo francese)

“Il cosiddetto mercato globale, in senso stretto, non è affatto un mercato, bensì una rete di macchine programmate secondo un singolo valore – quello di far soldi al solo scopo di far soldi – a esclusione di ogni altro possibile valore”. (Fritjof Capra, fisico e saggista austriaco)

“Apparentemente, la dignità della vita umana non era prevista nel piano della globalizzazione”. (Ernesto Sábato, – 1911-2011 – scrittore, filosofo e fisico argentino-italiano)

“In realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”. (La frase è vecchia e questo concetto è ora molto meno valido, ma val comunque la pena di renderlo edotto). (Henry Kissinger)

“La corsa dei popoli verso il brutto rappresenta il principale fenomeno della mondializzazione. Per rendersene conto basta girare in una città cinese, osservare i nuovi codici di decorazione delle Poste francesi o il modo in cui si vestono i turisti. Il cattivo gusto è il denominatore comune dell’umanità”. (Sylvain Tesson, scrittore, viaggiatore e “stégophile” (arrampicatore di tetti) francese)

“Il futuro del sistema lavorativo è più incerto che mai a causa della meccanicizzazione del lavoro tramite i computer e della globalizzazione sempre maggiore”. (Robert James Shiller, economista statunitense, premio Nobel 2013)

“Per noi ricchi la globalizzazione è qualcosa di buono per via di internet, il cellulare, il computer. Peccato che ciò non riguardi circa il 75% della popolazione mondiale”. (Jimmy Carter.) (Frase datata: ora sarebbe il caso di sostituire “circa” con “oltre”)

“La globalizzazione e l’individualismo postmoderno favoriscono uno stile di vita che rende molto più difficile lo sviluppo e la stabilità dei legami tra le persone e non è favorevole per promuovere una cultura della famiglia”. (Papa Francesco)

“Se la globalizzazione significa – come accade spesso – che i ricchi e i potenti hanno ora nuovi mezzi per arricchirsi ulteriormente e potenziarsi sulle spalle dei più poveri e più deboli, abbiamo la responsabilità di protestare in nome della libertà universale”. (Nelson Mandela)

“La globalizzazione dell’economia è un nuovo genere di colonialismo delle imprese”. (Vandana Shiva, ambientalista con dottorato in filosofia, indiana).

È finita l’epoca dei grandi imperi politico-ideologici americano e sovietico, agglomerati di nazioni unificate dall’organizzazione politico-amministrativa e militare di una nazione egemone.

Con la globalizzazione formalmente tutte le nazioni sono uguali, siano esse ricche come gli Usa o povere come il Guatemala. Ma è una visione errata, perché al posto degli imperi politico-ideologici si sono consolidate alcune nazioni che sono da sole delle superpotenze: gli Usa, la Russia, la Cina, l’India. Sono comunità politiche cementate dalla storia, spesso da una lingua comune, sempre da una lunga tradizione culturale. Sono queste potenti nazioni le nuove protagoniste della geopolitica. Esse sole sono in condizione di sottrarsi ai poteri sovrannazionali economici o comunicazionali ed hanno strumenti per imporre dazi, fare negoziati e dare regole valide per tutti.

L’Europa invece non è diventata una nazione, e per questo sono nate in essa delle spinte centrifughe che vorrebbero dare il potere (sovranismo) alle decine di Stati nazionali che la compongono. Il risultato dell’impotenza europea è una vera e propria devastazione del sistema produttivo e dell’alta cultura umanistica e scientifica tipica del nostro continente.

Se vogliamo sopravvivere, non farci frantumare ed impoverire, dobbiamo avere il coraggio di trasformare l’intera Europa in una superpotenza nazionale allo stesso livello di Usa, Russia, Cina, India. La strada maestra è di creare uno Stato federale con pochi poteri ben definiti come gli Usa o la Svizzera. Possiamo farlo utilizzando in modo nuovo gli organi comunitari esistenti: il Parlamento potenziato, il Senato (rappresentato dal Consiglio d’Europa riformato con l’eliminazione dell’unanimità). L’esecutivo, rappresentato dalla Commissione. E una corte federale, lasciando ad ogni nazione il diritto di conservare i propri costumi, le proprie tradizioni, le proprie specificità etiche o gastronomiche. Questo Stato-nazione dovrà difendere ad ogni costo e potenziare al massimo le nostre risorse economiche, culturali e scientifiche. Cioè quello che, negli ultimi secoli, ci ha dato un vantaggio sul resto del mondo. (Francesco Alberoni – “Il Giornale” – 11 agosto 2019)

LE FAVOLETTE INGIALLITE

La prima iniziai a raccontarla sin dai tempi delle medie, a trascriverla nei temi scolastici, con il tipico entusiasmo che scaturisce dall’ingenuità di ogni ragazzino che vuole cambiare il mondo e dalla gioia di vedersi riconosciuta, un po’ da tutti, quella marcia in più che faceva la differenza. La favoletta consisteva nell’esporre concetti universalisti, sia pure in modo raffazzonato, con l’ausilio di una metafora che mi sembrava molto suggestiva: per spiegare la stupidità dell’umanità in perenne conflitto, mostravo una foto della Via Lattea e il suo diametro in cifre, che ovviamente nessuno era in grado di citare correttamente: 2.590.206.873.600.000 km. Aggiungevo, poi, che solo al suo interno vi fossero oltre duecento miliardi di stelle (in realtà sono quasi il doppio, ma quelli erano i dati di cui disponevo allora) e oltre i suoi confini si estendevano miliardi di altre galassie, ancora più grandi e così lontane che, per quantificarne la distanza dalla Terra, sarebbero occorse cifre di oltre cento numeri, o addirittura mille! (Facevano molto più effetto degli anni luce). Cosa era il nostro pianeta, dunque, al cospetto di cotanto spazio infinito? Un puntino minuscolo, impercettibile su qualsiasi mappa cartacea che contemplasse anche solo una piccola parte della galassia. Da qui, poi, nasceva l’invito a tenere sempre bene a mente queste proporzioni, che avrebbero dovuto indurre chiunque a riconsiderare i propositi di “chiusura”, ad accettare l’idea che la Terra è davvero troppo piccola affinché alimenti divisioni e conflitti e nessuno ha colpe o meriti per dove nasce ma solo colpe o meriti per come vive. Questo mantra l’ho portato avanti per molti anni (troppi, dice qualcuno) e solo la maturità, gli studi e l’esperienza di vita mi hanno consentito di comprenderne l’assoluta inconsistenza, fonte di non poco sconforto, solo in parte mitigato dall’assonanza del mio ingenuo idealismo al nobilissimo pensiero di Confucio, caparbiamente difeso contro chiunque gli facesse notare i limiti della natura umana (2).

La seconda favoletta, una lingua comune europea, scaturì come logica conseguenza della prima. Non poteva che essere l’inglese, ovviamente, già agevolmente affermatasi da lungo tempo, per forza intrinseca, come lingua comune a livello planetario. Peccato che la volontà di imporre l’inglese come lingua universale fosse nata nelle dorate stanze dei poteri forti, quelli che muovono le fila del cosiddetto “mercato globale”, con ben altri propositi: schiavizzare i popoli, rendendoli sudditi dell’imperialismo anglo-americano, grazie all’illusoria percezione di una democrazia che, di fatto, altro non è se non la peggiore delle dittature proprio perché rende schiavi miliardi di persone, dando loro la sensazione di essere liberi. La (di)visione del mondo, tracciata da Ernst Jünger nel celebre saggio “Il nodo di Gordio”, chiude incontrovertibilmente ogni discorso universalista.

Il grande pensatore tedesco, con una breve frase, sbrandella qualsivoglia riferimento alla piccolezza della Terra comparata all’universo infinito, mia favoletta compresa, inquadrandola nella sua dimensione cosmogonica secondo la reale percezione della stragrande maggioranza degli esseri umani, per i quali sembra (e quindi “è”) immensa, o addirittura smisurata (3): “La grandezza di Alessandro, la luce che essa riverbera su tutte le corone occidentali, consiste nel fatto che egli seppe affrontare i grandi spazi più ancora che il gran re. Il suo ritorno dall’India è un miracolo più grande della distruzione di Babilonia”.  

Oggi non serve avere la lucidità intellettuale di Jünger per comprendere “la lontananza” che separa i popoli e, soprattutto, l’Occidente dall’Oriente, grazie alla facile evidenza delle reciproche intolleranze e alla recrudescenza del terrorismo, soprattutto nell’ultimo quarto di secolo, purtroppo spesso alimentato dall’incapacità di molti governi dell’Occidente nel relazionarsi adeguatamente con i paesi islamici (4). E’ cronaca quotidiana, inoltre, la difficoltà oggettiva di una reale integrazione di chi, proveniente da paesi minati da un forte integralismo religioso e culturale, ripudia le regole di vita della società occidentale, creando disarmonie sociali e conflitti, a volte estremi, anche in ambito familiare (5).

L’europeismo sano, pertanto, che nulla ha a che vedere con l’Europa dei mercanti, per sua natura “globalista”, si rivelò il rifugio ideale per accogliere quella weltanschauung miseramente naufragata sotto i nefasti colpi della realtà.  Non che fossero rose e fiori, ovviamente, come più volte scritto, perché ciò che accade su scala planetaria si riflette, proporzionalmente, in qualsiasi ambito territoriale. E’ ben chiaro, tuttavia, che parlare di Stati Uniti d’Europa ha molta più consistenza pratica, nonostante le mille difficoltà, che non perseguire l’illusione di un mondo realmente affratellato.

EFFETTI DELLA GLOBALIZZAZIONE.

L’economia ha sempre condizionato la politica, ma prima del 2000 era possibile, almeno dialetticamente, supportare il primato della politica senza correre il rischio di essere considerati dei visionari. Dal 2007, con l’inizio della grande recessione innescata dalla bolla immobiliare statunitense, anche per i bambini dell’asilo è chiaro che è il dio denaro a regolare le leggi del mondo. Quanto il sentir parlare sempre e solo di soldi, PIL e mercato, possa essere nefasto per la formazione dei giovani e frustrante per chiunque, è di facile comprensione per chiunque abbia dedicato la propria gioventù, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, a quei fremiti ideali che ponevano al primo posto, sulla scala dei valori, quelli esistenziali. Proprio in omaggio a quel presupposto che considero ancora valido, senza alcun timore di passare per visionario, voglio iniziare questo paragrafo, ovviamente dedicato all’economia, con una citazione di un uomo vissuto duemila anni fa, Publilio Siro, tradotto a Roma come schiavo e poi divenuto un colto e raffinato liberto, che ritengo molto valida per sintetizzare “uno” degli effetti più deleteri della globalizzazione: “Lucrum sine damno alterius fieri non potest”.

“Uno”, ma non il principale, perché, sempre per rafforzare il concetto della necessità di ribaltare il rapporto tra politica ed economia, il danno più grave prodotto dalla globalizzazione è l’aver creato un individuo senza identità, praticando un vero e proprio genocidio culturale con la progressiva distruzione delle radici dei popoli, spacciandola per una democrazia dell’uguaglianza che invece è solo il suo opposto. I fautori della globalizzazione parlano spesso, con linguaggio astruso e accattivante allo stesso tempo, degli effetti benefici scaturiti dall’aumento della ricchezza che, in effetti, è aumentata, ma solo per due categorie di persone: quelle con un reddito medio e i super ricchi. Le altre categorie, in netta maggioranza, già in difficoltà, sono precipitate verso la soglia della povertà o l’hanno abbondantemente superata. Oggi l’1% della popolazione mondiale (non più di 70milioni di persone) detiene una ricchezza pari a quella del restante 99%. Ventisei super miliardari possiedono una ricchezza analoga a quella di circa quattro miliardi di persone. E’ facile immaginare che le diseguaglianze si registrino precipuamente nei paesi del cosiddetto terzo mondo o in via di sviluppo, ma anche all’interno del nostro beneamato Occidente gli effetti della globalizzazione sono disastrosi. Negli USA il 20% della popolazione (65.862.353) possiede il 33,5% della ricchezza; il restante 66,5%, quindi, riguarda ben 263.449.411 cittadini! In Italia la distribuzione della ricchezza nazionale netta, il cui ammontare è pari a 8.760.000.000 euro (dati 2018), è così ripartita: il 20% più ricco della popolazione ne detiene il 72%; un altro 20% meno ricco il 15,6%; il restante 60% della popolazione (36.000.000), quindi, si deve accontentare del 12,4% di ricchezza nazionale (6)!  

Le cause della marcata diseguaglianza sono note: delocalizzazione delle aziende verso paesi che consentono lo sfruttamento dei lavoratori e incentivano gli imprenditori con regimi fiscali convenienti, non scevri di compromessi eticamente discutibili; la disoccupazione interna che da ciò scaturisce, con ulteriore riduzione del costo del lavoro; la colpevole complicità di una classe politica succube dell’imprenditoria, che chiude gli occhi sulla forte evasione, sullo sfruttamento marcato, sia dei lavoratori italiani sia di quelli stranieri, trattati come schiavi (sui sindacati stendiamo un velo pietoso perché la loro conclamata inadeguatezza precede lo scoppio della crisi e gli effetti nefasti della globalizzazione); la massimizzazione degli utili d’impresa, che determina retribuzioni pazzesche per i top manager e un mercato “corrotto”, alimentato anche dall’incapacità dei consumatori ad autotutelarsi (7). A conclusione di questo paragrafo è doveroso, sia pure in modo estremamente sintetico, spendere due parole sul “sistema” alla base di tutti i mali sociali e principale ispiratore della globalizzazione: il liberalismo, con tutti i suoi derivati. Non esiste forma più bassa di libertà di quella offerta dai cosiddetti liberali, le cui dinamiche di pensiero possono senz’altro definirsi criminali. Ricordiamo tutti il Berlusconi che legiferava sul falso in bilancio, asserendo che esso non costituiva reato. Per i liberali la libertà coincide con il poter fare tutto ciò che si vuole, senza porsi limiti. Con l’impegno di dedicare all’argomento più ampio spazio in altra occasione, qui mi limito a citare il recente saggio di Alain de Benoist, “Contre le liberalisme”, Edition du Roche, che rappresenta la summa della pur corposa pubblicistica che affronta in modo serio e non strumentale il grande bluff degli ultimi due secoli (8).

COME USCIRE DAL TUNNEL

Di sicuro è più facile scalare il K2. Le ricette sono tante, periodicamente esposte nei frequenti forum economici mondiali, che si trasformano, però, in allegre scampagnate per i potenti della Terra, visti i risultati.

Senza politiche serie, anche di natura repressiva, sperare che un imprenditore riduca gli utili aziendali, a vantaggio di una più equa retribuzione dei lavoratori, soltanto grazie agli inviti etici, fa solo ridere. Lo stesso dicasi per l’evasione fiscale, che non viene combattuta per una chiara volontà politica, come spiegato dall’insigne magistrato Francesco Greco nella recente festa del “Fatto Quotidiano”, alla Versiliana: “Nelle banche dati abbiamo tutti i conti correnti degli italiani, anche quelli esteri in oltre 100 Paesi, inclusi i paradisi fiscali. In Svizzera vi sono 200miliardi di euro nelle cassette di sicurezza, di italiani evasori, che si possono recuperare, ma è la politica che non vuole agire perché gli evasori votano e condizionano chi ci governa”. Un altro aspetto nefasto da correggere è il forte gap tra il prezzo giusto dei prodotti e quello reale, che quasi sempre presenta un surplus ingiustificato (vedi nota nr. 7). Recuperare soldi dalle multinazionali consentirebbe di aumentare la spesa pubblica per i servizi sociali primari: sanità, istruzione, sicurezza, a tutto vantaggio delle fasce più deboli (9). Ciò che più serve, tuttavia, è un radicale cambiamento della mentalità di tutti: il liberalismo si alimenta dell’ignoranza, il che significa, e diciamo sempre le stesse cose, che siamo noi i primi responsabili delle nostre sventure.

NOTE

  • “Confini” Nr. 38, 52, 56, 71, 74
  • A chi gli spiegava che la natura umana è lussuriosa, avida, incline alla guerra e pertanto con i riti (l’organizzazione sociale, amministrativa e politica da lui concepita, per certi versi assimilabile a qualsivoglia progetto che preveda una divisione netta tra bene e male e non tenga conto dei troppi limiti degli esseri umani ) non è possibile governare, replicava seraficamente che i riti, benèfici per lo Stato e gli individui, sono la vera arte di governo; senza di essi si precipita nel caos; ogni gentiluomo ha l’arduo compito di rispettarli e indurre gli altri ad agire allo stesso modo, imponendosi sempre una perfetta moralità perché solo chi dall’inizio segue la retta via non potrà perdersi.
  • Al di là di quanto ben traspare dalla cronaca quotidiana, penso che chiunque sia stato più volte testimone di qualche evento che conclami questo assunto. Per qualche anno ho abitato in un piccolo comune della provincia di Caserta e il medico di famiglia, scelto su indicazione di amici locali, era da lungo tempo un importante punto di riferimento per la comunità. Quando si rese necessario sostituirlo, al suo posto giunse un collega che abitava nel comune limitrofo, ma a poche decine di metri dallo studio, costituendo i due paesi un unico aggrovigliato tessuto urbano. Le case di molti pazienti, invece, potevano distare anche due-tre chilometri. Nondimeno, per tutti, il nuovo medico fu subito definito “il forestiero”.
  • Si veda l’articolo “Venti di guerra”, pubblicato nel numero 40 di “CONFINI” (gennaio 2016) nel quale vengono illustrate le responsabilità degli USA per la nascita dell’ISIS.
  • La vicenda di Sana Cheema è solo la più recente di una lunga sequela di analoghi episodi assurti alla ribalta della cronaca in tutta Europa e di tanti altri che, purtroppo, restano occultati all’interno delle mura domestiche. La venticinquenne, pakistana, residente a Brescia, è stata sgozzata lo scorso anno dal padre e dal fratello perché si era innamorata di un ragazzo italiano e aveva intenzione di sposarlo. Il suo omicidio ricorda quello della connazionale Hina Saleem, ventenne, assassinata nel 2006 sempre nel bresciano, perché aveva un fidanzato italiano e vestiva troppo all’occidentale. Il padre, lo zio e due cugini furono accusati di aver sgozzato la giovane e averla seppellita in giardino con la testa rivolta verso la Mecca. Il cinema offre molte testimonianze, anche pregevoli, dedicate ai problemi d’integrazione, tra le quali, cito a memoria, limitandomi alla sola Europa: “Cosa dirà la gente” della regista norvegese-iraniana Iram Haq, ispirato a una vicenda personale; “Almanya – La mia famiglia va in Germania”, di Yasemin Samdereli; “East is East”. E’ davvero smisurata, invece, la lista dei film di analogo sentore prodotti negli USA, che inglobano anche il razzismo tout-court, rappresentato in tutte le sue squallide salse, ivi compreso, però, quello, non meno insopportabile, degli stupidi stereotipi statunitensi sul resto del mondo e sull’Europa in particolare.
  • I dati riportati sono quelli ufficiali – fonte “Il sole 24 Ore”. Ancorché molto gravi, però, le cifre non riflettono la realtà, che è ben peggiore, come traspare da analisi “non ufficiali”, ma molto più veritiere.
  • Si veda a tal proposito il paragrafo “educazione ai consumi” nell’articolo “Crescere o decrescere”, nr. 72 di “CONFINI”, marzo 2019.
  • Attualmente disponibile solo in francese.
  • Ciascuno di questi settori meriterebbe un articolo, per metterne in luce le tante distonie, essendo tutti allo sfascio. Nel mese che vede la riapertura delle scuole è opportuno citare lo scandalo dei libri testo, che cambiano ogni anno grazie alla legge voluta dal “neoliberista” Monti, per la gioia degli editori che, grazie al gradito regalo montiano, incassano oltre 600milioni di euro ogni anno, ossia il 20% dell’intero fatturato dell’editoria, facendo piangere, con il cinismo tipico di chi guarda il mondo comodamente assiso su montagne di denaro, alunni e genitori. Un aggiornamento editoriale ogni cinque-sei anni, e soprattutto l’abolizione dei tanti testi inutili, sarebbe quanto mai opportuno.

Lino Lavorgna

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