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Le pensioni non sono un lusso

I programmi televisivi, impietosi, riflettono senza ombre lo squallore di un Paese allo sbando e la tristezza di una classe dirigente avviluppata nella propria inconsistenza, confusa e persa nell’impossibile compito di conciliare l’inconciliabile.

Tratteggiare volti e storie è impossibile senza trasformare un articolo in un romanzo dell’orrore e pertanto ci limitiamo a pochi esempi.

C’è la Fornero, che con il truce sguardo mefistofelico ci ricorda perennemente l’empietà del male, elemento che sfugge al relativismo einsteiniano assumendo  valore assoluto, alla pari del motto ripetuto come un mantra dai frati trappisti: “Ricordati che devi morire”; c’è Giuliano Cazzola, “economista” con laurea in legge, che come ogni furbo socialista dei tempi craxiani ha navigato tutti i mari della politica, riuscendo anche a trascorrere cinque anni in Parlamento.

C’è anche Nicola Fratoianni, filosofo nostrano di scuola marxista, che se uno non lo conoscesse potrebbe tranquillamente scambiarlo per un gigante in mezzo ai nani, grazie ad argomentazioni sul rispetto della dignità umana intrise di umanità e condivisibili senza eccezione alcuna. Argomentazioni che dimostrano per l’ennesima volta e in modo ancora più pregnante quanto magistralmente asserito da un filosofo vero, sicuramente il più grande tra i viventi, il francese Alain de Benoist: «Tutte le famiglie di pensiero, intellettuali, politiche e religiose, si stanno oggi dissolvendo, urtando contro nuovi spartiacque: non più la destra e la sinistra, ma l’identità, l’individualismo e le comunità, il capitalismo liberale, le nuove forme di alienazione sociale, i valori mercantili». (Rivista “Elements”, nr. 157).

La complessità della società contemporanea ha spezzato il fronte dell’appartenenza, creando quel caos che poi induce la maggioranza delle persone a “non scegliere” perché disorientate da una politica disomogenea e frustrante: Fratoianni che dice cose sensate in tema di pensioni e fa venire i brividi quando sale con altri parlamentari sulle navi delle “ONG” che infrangono le leggi che egli, come parlamentare, dovrebbe essere il primo a rispettare; Salvini ineccepibile nella gestione dei flussi migratori, meritevole di gratitudine per “Quota 100”, impegno contro la liberalizzazione delle droghe e poche altre cose, ma disastroso in tutto il resto. E per amor di sintesi fermiamoci qui,  essendo le contraddizioni della politica infinite.

Per le pensioni, sentendo tanti figuri impegnati in discorsi sconclusionati, nei quali troneggiano le tentazioni care alla Fornero ritornare prepotentemente attuali, vengono istintivamente pensieri maligni, ma poi la rabbia sbolle e la mente impone d’impeto il dovere di contrapporsi allo scempio disumano restando “umani”. Che fatica, tuttavia.

Per comprendere le distonie di una problematica gestita in modo insulso, utile anche a trovare un minimo di alibi al comportamento dei figuri succitati e dei loro tanti compagni di merende, altrimenti passibili di essere assimilati solo ai criminali, facciamo un esempio simbolicamente emblematico.

Immaginiamo di doverci recare a Viareggio partendo da Roma e di prendere in considerazione solo due percorsi: quello autostradale e quello costiero, sulla storica Via Aurelia. Immaginiamo, tuttavia, che entrambi i percorsi siano intrisi di ostacoli, in alcuni tratti insormontabili, in altri pericolosi per cause che divergono ma sostanzialmente di pari negativa efficacia.

Coloro che devono decidere quale strada scegliere, pertanto, si scannano cercando di individuare quella che presenta meno rischi. Scontro destinato a finire male in ogni caso, perché sarebbero da evitare entrambe. Immaginiamo, poi, che l’autostrada da Roma a Teramo sia la più bella del mondo (non ridete, è solo un esempio), seguita da una seconda autostrada che, da Teramo a Viareggio, passando per Pesaro e Bologna, non sia da meno per bellezza, sicurezza e offerta di servizi. Qualsiasi  persona di buon senso non avrebbe esitazioni a scegliere questa alternativa! Percorso più lungo, certo, ma sicuramente meno impegnativo, percorribile in tempo addirittura inferiore e meno oneroso: i maggiori costi di carburante sarebbero ampiamente compensati dai costi, sicuramente più consistenti, necessari per superare tutti gli ostacoli presenti nelle strade scartate.

Per le pensioni basterebbe ragionare con questi presupposti e la terza via si dipanerebbe alla vista più limpida dell’acqua di sorgente.

«I costi del lavoro non ci rendono competitivi», sostengono gli industriali; «Bisogna lavorare fino a 67 anni», sostengono coloro che non hanno idea di cosa significhi “lavorare”, in quanto parassiti lautamente retribuiti da un sistema marcio.

Mettiamo un po’ di ordine.

Non sono i costi del lavoro a penalizzare le aziende ma la volontà di “snaturare” il rapporto tra i fattori della produzione a esclusivo vantaggio del capitale, rendendo schiavi i lavoratori. Prolungare l’attività lavorativa degli individui in modo disumano vuol dire esaltare il concetto di “lavorare per vivere” e penalizzare quello che, invece, dovrebbe essere alla base di una società civile: “vivere per lavorare”. Vivere per lavorare, però, in modo dignitoso, gradevole e con il sorriso sulle labbra.
Mera utopia, per ora, anche per colpa di quei sindacati che, seppure in questi giorni manifestano legittima indignazione per le chiusure governative, che ovviamente fanno aggio ai veri “gestori del sistema”, sono responsabili delle tante “compromissioni e complicità” con gli antagonisti e della propensione a tollerare profonde ingiustizie, tra le quali lo sfruttamento indiscriminato, a cominciare da quello minorile, figura al primo posto.

Invertire la rotta affinché si possa realizzare una più equa distribuzione della ricchezza, quindi, è l’unica strada percorribile per sanare la grave distonia sociale in tema di lavoro. A 62 anni occorre “smettere” di lavorare e lasciare spazio ai giovani, che avranno così modo di effettuare un percorso lavorativo dignitoso, senza attendere di diventare nonni prima di reperire un’occupazione stabile.

Gli imprenditori devono “arrendersi” all’idea di guadagnare di meno e onestamente, perché tutta la ricchezza che rubano evadendo le tasse e sfruttando i lavoratori serve ad “altri”; serve a chi ne abbia effettivamente bisogno. I prezzi dei prodotti industriali contengono un “surplus” ingiustificato che avvantaggia solo i produttori e si rendono plausibili grazie alla “stupidità” dei consumatori, i quali si tirano la zappa sui piedi cambiando, per esempio, un telefonino ogni anno, pagandolo mille euro e ignorando che potrebbe essere venduto tranquillamente a meno della metà, senza che nessuno ci perda! Quel surplus ingiustificato, però, che riguarda tutti i prodotti, automobili comprese, amplifica e non di poco il divario tra ricchi e poveri.
Il discorso sulla regolamentazione dei prezzi (che di fatto si trasformerebbe in un “aumento della disponibilità economica per le famiglie”) è complesso, richiedendo una propedeutica azione formatrice da effettuare tra i consumatori e pertanto lo rimandiamo ad altra occasione.   

Per ora facciamo le barricate per difendere “Quota 100”, ma facciamole sul serio, senza lasciare respiro ai cinici servi di un sistema malato e dei poteri forti. Forti solo nella propensione al male. Poi si vedrà, perché è ben chiaro che sono ancora tanti i problemi da risolvere. Serve un passo alla volta per costruire una società più giusta che, per la confusa condizione attuale, consente anche di “sfruttare”, in modo volutamente “provocatorio”, qualche citazione di soggetti dalla storia severamente condannati: “Le condizioni disperate della società in cui vivo mi riempiono di speranza”.

                                                                                     Lino Lavorgna

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