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Vittorio Mussolini: quando il cognome condiziona la vita

Sono trascorsi venti anni dalla morte di Vittorio Mussolini (Milano, 27 settembre 1916 – Roma, 13 giugno 1997), secondogenito di Benito Mussolini e Rachele Guidi e importante testimone delle vicende belliche che caratterizzarono la parte finale della seconda guerra mondiale. Lino Lavorgna lo ha incontrato nel 1983 e i ricordi di quell’incontro saranno parte integrante di un saggio di prossima pubblicazione. Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo un estratto del capitolo a lui dedicato.(A. R.)

Prima di esternare i ricordi dell’incontro con Vittorio e Romano Mussolini, avvenuto nel novembre del 1983, è opportuna una premessa per ben contestualizzare quegli anni che, seppure non eccessivamente lontani dal punto di vista temporale, sembrano appartenere alla preistoria, in virtù delle radicali trasformazioni sociali avvenute nell’ultimo trentennio.

Che il Movimento Sociale Italiano fosse nato dalle ceneri del fascismo è un dato di fatto incontrovertibile. Parimenti, lo scontro generazionale che avvenne dagli anni sessanta agli anni ottanta, vedeva ideologicamente contrapposti i giovani di sinistra, per i quali era normale definirsi “comunisti”, e i giovani di destra, che in massima parte si definivano “fascisti”. La società, dal punto di vista politico, era ancora caratterizzata da un confronto ideologico, che, nelle punte estreme, sfociò nei sanguinosi eventi degli anni di piombo, forieri d’immani tragedie1. La deideologizzazione della società inizierà nel 1993, quando Berlusconi, fondando Forza Italia, impresse una svolta radicale ai costumi e alla mentalità del Paese, amplificando sensibilmente un’attività già avviata anni addietro con le emittenti televisive. La vecchia destra missina fu assorbita dallo spregiudicato imprenditore e costretta a un rapido adeguamento al nuovo corso. Anche la sinistra fu costretta a reinventarsi, per restare al passo, allontanandosi velocemente dall’ombra comunista, proprio come Gianfranco Fini aveva fatto con quella del fascismo. L’analisi storiografica del profondo processo di trasformazione sociale non è oggetto di questo saggio. Qui ci fermiamo agli anni precedenti e agli avvenimenti che li caratterizzarono. La prima distinzione riguarda “i confini generazionali”, che vanno scrutati con attenzione, per non finire fuori strada nell’analisi. La generazione degli anni quaranta e cinquanta, sotto un profilo strettamente “antropologico”, era molto più vicina ai genitori e ai nonni2 che non ai figli e nipoti, futuri protagonisti della rivoluzione tecnologica.

Il concetto di appartenenza, dal dopoguerra agli anni ottanta, era molto sentito ed era naturale anteporre l’amore nei confronti della causa che si riteneva giusta a qualsiasi altra cosa. Le persone ritenute degne di massima stima erano tributarie di una vera e propria idolatria, soprattutto nell’area destrorsa, nella quale si perpetuava la venerazione a suo tempo riservata a Mussolini, capace di conquistare cuore e anima delle classi medie e dei proletari non chiaramente orientati a sinistra. L’alta borghesia e i potentati economici, come noto, si votarono al fascismo e al suo capo con la razionalità di chi sceglie sempre per convenienza. Un esempio che serve a spiegare meglio le sensibilità di quel periodo lo troviamo in una cronaca del gerarca Bottati, comandante di Battaglione durante la campagna d’Abissinia, nel 1936. Sugli elmetti dei soldati vi erano scritte inneggianti al Duce e al Re, per i quali si era pronti a sacrificare la vita, considerando ciò “un grande onore”. Sintomatica una delle frasi citate, letta sull’elmetto di un semplice soldato: “Se vivo, voglio vivere all’ombra della mia bandiera. Se muoio voglio essere crocefisso all’asta della mia bandiera”. Ancora più esplicativa la lettera di un vecchio caporal maggiore, che aveva prestato servizio alle dipendenze di Bottai nella 1^ guerra mondiale. Scrive al suo ex comandante, rammaricato, per il disonorevole ruolo del figlio, assegnato, contro la sua volontà, a un reparto delle retrovie e con mansioni di ufficio! La lettera si conclude con una precisa esortazione per un immediato trasferimento al fronte, possibilmente nel suo Battaglione. “Bravo fesso”, esclamò il Generale Bertini, quando Bottai gli riferì della lettera.

Non siamo lontani, pertanto, dallo spirito dei soldati napoleonici di Lipsia e Waterloo e gli esempi potrebbero continuare a iosa, scorrendo all’indietro le pagine della storia. I ventenni degli anni settanta, se non proprio in modo così marcato, erano pervasi dagli stessi fremiti ideali.

L’Italia del dopoguerra, da un punto di vista prettamente politico, si distingueva in tre blocchi. Due blocchi estremi (destra e sinistra, con dipanazioni ancora più estreme rappresentate dai gruppi che scelsero la lotta armata) e un nucleo centrale che, convenzionalmente, si riconosceva nel cosiddetto “pentapartito”, ossia l’area politica che deteneva le leve del potere, egemonizzata dal partito principale: la Democrazia Cristiana.  Quest’area governativa, che subentrò al fascismo, avviando il processo di “ricostruzione” del Paese, si rese conto ben presto delle grosse opportunità offerte dalla politica per l’arricchimento personale. Una gestione “allegra” del potere e le collusioni con le varie mafie furono la normale conseguenza di questa consapevolezza. Le organizzazioni criminali assicuravano consistenti pacchetti di voti, ottenendo in cambio protezioni e libertà d’azione3. Il marciume imperante – sia pure con tante eccezioni e riserve sulle quali sorvoliamo per amor di sintesi – veniva contrastato proprio da coloro che, ideologicamente, militavano a destra e a sinistra, i quali, però, oltre ad avere un nemico comune, storicamente erano anche nemici tra loro. Fu quest’ultima componente che ebbe il sopravvento, proprio perché “l’ideologia” condizionava, più di qualsiasi altra cosa, il comportamento umano.  E così, i giovani di destra e di sinistra, scioccamente, iniziarono una guerra che li portò ad ammazzarsi vicendevolmente.

Le reciproche scelte di campo erano condizionate da due fattori primari: ambiente sociale e familiare, retaggio ancestrale. Una destra che si era sviluppata grazie a ex fascisti, fungeva da richiamo per coloro che, precipuamente, avvertivano un forte senso della patria, dell’onore, della famiglia e tanti giovani, che del fascismo non sapevano nulla e soprattutto non lo avevano nemmeno approfondito culturalmente, iniziarono a professarsi tali per riflesso condizionato. Vi è da aggiungere che il leader del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, era un uomo che esercitava un forte fascino per la sua straordinaria statura etico-morale, per l’onestà intellettuale e per il forte contrasto agli orrori della partitocrazia dominante. Non rinnegava le radici e ciò indusse ancor più i suoi adepti a vedere incarnati nel fascismo i princìpi e i valori di cui si sentivano portatori. La componente che prese maggiormente corpo, però, fu quella emozionale, non scevra di anacronistico nostalgismo, celebrato con riti destinati inevitabilmente a essere schiacciati dal fluire degli eventi di un mondo in rapida trasformazione.  Dal lato opposto, il Partito Comunista, pur alimentando il mito del riscatto sociale con pari enfasi e pervaso da analogo furore ideologico, riuscì a meglio strutturarsi sul territorio, con logiche più razionali, traducendo sul piano pratico gli insegnamenti di Antonio Gramsci.  Lo studio e la cultura furono considerati elementi fondamentali per la conquista del potere e gli eccellenti risultati di tali presupposti si vedranno nel giro di pochissimi anni. Anche a destra, per la verità, vi era una componente di alto spessore culturale, ma non ebbe la forza di emergere da uno stadio di subalternità nei confronti della classe dirigente del MSI, che beneficiava della luce assicurata da Giorgio Almirante, la cui lungimiranza ed esperienza sicuramente gli fecero ben comprendere che gli intellettuali puri, politicamente, non avrebbero mai ottenuto grande consenso, senza però arrivare a prevedere ciò che sarebbero stati capaci di fare i suoi figli prediletti, una volta che le mutate condizioni politico-sociali avrebbero consentito loro di conquistare il potere.  

Ogni tentativo di evoluzione verso una nuova destra, che regolasse i conti con il passato e iniziasse guardare al futuro, fu stroncato sul nascere e visto come l’azione di visionari non allineati. Quasi dei rinnegati.

I nodi, poi, vengono sempre al pettine e oggi, di fatto, in Italia non esiste una vera destra sociale, moderna ed europea, anche se in tanti si professano di destra, confondendone princìpi e funzioni.

Nonostante la mia posizione minoritaria e la forte conflittualità all’interno del MSI, nel 1983 riuscii a vincere le elezioni per il ruolo di segretario cittadino a Caserta. Esercitando anche quello di dirigente provinciale, nel settore della comunicazione, a quel ancora definito con la vecchia terminologia in uso nel Ventennio, stampa e propaganda, nonché quello di responsabile della Consulta provinciale corporativa4, toccò a me fare gli onori di casa nel corso della visita a Caserta di Vittorio e Romano Mussolini. L’occasione scaturì dal centenario della nascita del loro papà, che vide i due fratelli impegnati in un tour nelle principali città della penisola.

Fu realizzata anche un’intervista presso l’emittente televisiva Teleluna, reperibile in rete nel mio secondo canale “YouTube”.

Purtroppo non ebbi modo di incidere nella gestione dell’intervista, gelosamente monopolizzata dal redattore dell’emittente, che si accontentò di essere ripreso insieme con il figlio del Duce, ponendogli domande non particolarmente interessanti.

Nel corso della serata, fortunatamente, ebbi modo di parlare a lungo con il “Comandante”. Romano non si era trattenuto e aveva fatto ritorno a Roma il giorno precedente, non prima di avermi fatto omaggio di un suo quadro, che ritraeva il padre.

Avevo ben chiaro cosa volevo sapere e le domande miravano ad aggiungere qualcosa di nuovo al tanto già noto. Cercai, in poche parole, di scandagliare il suo animo, partendo dai fatti, per comprendere le sfumature di una vita intensa e movimentata, vissuta all’ombra di un uomo capace di scatenare un isterismo collettivo che portò le masse a idolatrarlo, affidandogli senza indugio il bene più prezioso: la vita.

Per iniziare sfruttai un argomento che poteva creare una facile empatia: il cinema. Nell’intervista pomeridiana aveva affermato che le sue due grandi passioni erano l’attività giornalistica, iniziata quando era ancora un giovinetto, e il cinema. Mi aveva conosciuto come giornalista e gli rivelai che anch’io avevo iniziato l’attività a diciassette anni, come corrispondente del “Secolo d’Italia”. Aggiunsi, inoltre, che il primo tesserino portava la firma di un uomo che ben conosceva: Nino Tripodi.  Gli dissi anche che ero un attore, che avevo studiato regia e mi sarebbe piaciuto, un giorno, dirigere un film, “che penso sia una vera medicina per lo spirito”. Si concesse un tenue sorriso, molto rincuorante per me, giacché erano ancora palpabili il nervosismo per il pomeriggio televisivo e la stanchezza per la giornata intensa.

“Dipende” – rispose quasi bisbigliando. “Come per tutte le cose è solo lo scopo che fa la differenza”. Il ghiaccio si stava sciogliendo e partii all’attacco.

Gli chiesi come mai, in piena guerra (1942), scrisse un soggetto per un film dedicato a Luisa Sanfelice, apprendendo che era stato abbozzato già da molto tempo, dopo aver letto il romanzo di Alexander Dumas Padre, che amava moltissimo e del quale aveva “divorato” tutti i romanzi. Lentamente riuscii a tirare fuori interessanti aspetti della sua complessa personalità. Manifestò una larvata simpatia per la Rivoluzione Francese, pur essendo consapevole dei guasti provocati dall’illusione illuminista. Non gli sfuggivano le nette differenze tra i Francesi del Direttorio (e loro predecessori) e i Giacobini italiani, nonostante le forti affinità di pensiero. Traspariva evidente, però, che era attratto principalmente dai personaggi e dalla loro aura romantica.  Della Sanfelice, per esempio, gli piaceva la “sua straordinaria capacità di essere donna nel senso più pieno della parola e allo stesso tempo rivoluzionaria”. Questa divagazione mi colse un po’ di sorpresa e mi avrebbe fatto piacere approfondirla, ma la mia mente brulicava di domande concentrate soprattutto nel periodo storico che lo vide in qualche modo protagonista e così evitai di andare oltre, per timore di essere dispersivo e di vedermi abbandonato da un momento all’altro, senza poter approfondire quegli argomenti che cercavo di sedimentare, al fine di proporli in modo organico e non disordinato, com’era accaduto durante l’intervista televisiva pomeridiana. Ciò che mi premeva approfondire era la fase finale del periodo bellico, quando collaborò strettamente con suo padre; le impressioni negli incontri con Hitler e i gerarchi nazisti. Mi resi conto, però, che avevo ancora bisogno di arare il terreno, prima di sollecitare la memoria di momenti tristi e dolorosi.

Gli chiesi di sua madre, dei fratelli e delle sorelle, dell’adolescenza a Villa Torlonia e delle frequentazioni giovanili nella Roma degli anni trenta, ottenendo risposte che non aggiungevano nulla di nuovo a quanto già abbondantemente riportato dalla pubblicistica dedicata al regime e alla sua famiglia. Con la campagna d’Etiopia entrammo, finalmente, in un contesto più intrigante e notai subito, sin dalle prime domande, un irrigidimento della postura, tipico di chi si appresta a “giocare in difesa”, mentre fino a quel momento era apparso più disteso.

Gli chiesi se fosse stato il padre a suggerirgli (o a imporgli) di arruolarsi volontario, nel 1935, e il “no” fu pronunciato chiaramente, ma con un tono che lasciava sottintendere un pensiero non espresso. “No, non mi ha costretto né me l’ha suggerito, ma so che ne è stato felice”5.

Non era più il momento di indugiare. Gli chiesi se a distanza di tanti anni ritenesse giusto attaccare uno stato sovrano, riconosciuto dalla Società delle Nazioni, per sottometterlo solo in virtù della preponderante forza militare. Si concesse una lunga pausa prima di rispondere; a mia volta cercavo di decifrare i pensieri, di carpire il suo stato d’animo. Si stava rendendo conto che sarei andato molto più a fondo di quanto non fosse accaduto durante l’intervista televisiva, che mal aveva digerito, e ciò sicuramente gli faceva piacere. Ebbi netta la sensazione, però, che si chiese anche fino a che punto mi sarei spinto.

Parlò a lungo della campagna d’Africa, sforzandosi soprattutto di contestualizzarla, con continui riferimenti ai colonialismi degli altri Paesi, che “a differenza dell’Italia avevano possedimenti non solo in Africa ed Europa”6.

La contestualizzazione del periodo storico fu ribadita con determinazione per tutto il tempo della conversazione e non mancarono riferimenti espliciti a quanto dichiarato dal padre nel corso degli anni, sui singoli argomenti. Mi chiese se io possedessi l’Opera omnia che riportava quasi tutti gli scritti e i discorsi di Mussolini e alla risposta affermativa mi invitò a leggere l’intervista rilasciata dal padre al giornalista francese Henry de Kerillis, nel 1935.  Il concetto di colonia era fortemente radicato nella mentalità dell’epoca, ma era molto sviluppato anche lo spirito competitivo tra le varie nazioni, che generava un complesso di inferiorità in quelle che ne possedevano di meno. I colonizzati non erano visti come esseri umani, ma come inferiori da sottomettere alla volontà dei colonizzatori, nei quali albergava ancora una mentalità schiavista e il desiderio di sfruttare il prossimo per il proprio personale tornaconto. Quello che oggi appare come un’aberrazione di menti malate, rozze e non evolute, allora era del tutto normale in larghi strati della società, a prescindere dalle idee politiche professate.

Non potei fare a meno di chiedergli cosa ne pensasse dei gas utilizzati da Badoglio e Graziani, su precisi ordini del padre. La domanda lo turbò non poco e dapprima tentò di glissare asserendo che si era esagerato con questa storia, che non aveva mai avuto sentore, durante la permanenza in Etiopia, dell’utilizzo dei gas e che ne aveva sentito parlare solo a guerra finita. Obiettai che vi erano documenti storici inconfutabili, tra l’altro riportati proprio nella corposa “Opera omnia” di cui aveva fatto cenno prima e che oramai non vi potevano essere dubbi circa il loro utilizzo. “I nostri nemici – replicò, ammettendo implicitamente che l’argomento non gli era oscuro – dimostrarono in più di un’occasione che erano in grado di metterci in difficoltà. Il territorio era molto vasto e vi era urgenza di chiudere la partita. Se Badoglio e Graziani hanno utilizzato i gas, vuol dire che non ne potevano fare a meno”.

Non tragga in inganno la durezza della frase. Il conflitto interiore tra l’uomo in quanto tale e il figlio del duce era palpabile, non solo attraverso le parole e il tono utilizzato nel profferirle, ma anche nella espressività corporea, nello sguardo, che trasmetteva un messaggio recondito e mai espresso, tra l’altro ben percepibile anche nel video dell’intervista: “Ma cosa volete da me? Cosa vi aspettate? Sono trascorsi oltre quaranta anni da quei tragici momenti che mi hanno visto, giovanissimo, confrontarmi con uomini che hanno scritto, nel bene e nel male, drammatiche pagine di storia. E prima di ogni cosa io sono il figlio di mio padre”.

Percepii questo pensiero quando l’amico Michele Falcone, il capo della federazione provinciale del partito, mi fece cenno che avevo solo altri quaranta minuti a disposizione e poi sarebbero venuti a prenderci per andare a cena. Quaranta miseri minuti per parlare di nove anni pregni di eventi! Nel corso dell’affollata cena, inevitabilmente, non averi avuto la possibilità di dialogare ancora costruttivamente con lui. Non era il caso di soffermarsi oltre sulla campagna d’Abissinia e saltai subito al periodo della Repubblica Sociale, che lo vide al fianco del padre con un importante ruolo fiduciario. Il dato che volevo approfondire riguardava il giudizio ex ante, su quell’esperienza, e le eventuali mutazioni avvenute ex post. Era stato un amico intimo di Pavolini e Farinacci;  era il cognato di Galeazzo Ciano; aveva avuto incontri riservati con Hitler e von Ribbentrop, oltre che con alti gerarchi nazisti e fascisti; aveva conosciuto i membri del Gran Consiglio e tanti alti dignitari che, grazie alla benevolenza conquistata con la loro fedeltà al regime, si trasformarono nei classici “dittatori di provincia”, alieni a ogni regola, mai paghi nell’accumulo di ricchezze e prebende e costantemente sotto l’effetto di quella terribile droga che si chiama delirio di onnipotenza. Cosa pensava ora, di siffatti personaggi? Quaranta miseri minuti, perbacco! Non potevo tergiversare. 

“In alcuni testi ho letto che ha fortemente sostenuto Pavolini per la nomina a segretario del Partito Fascista Repubblicano; in qualche intervista, invece, ha dichiarato che Suo padre lo avrebbe scelto in virtù del forte legame di amicizia con Ciano, quasi sperando che potesse giungere da lui quel gesto di clemenza che egli sentiva di non poter compiere, per non irretire Hitler. Qual è la verità?”

Si concesse una lunga pausa prima di rispondere e poi affermò che “la verità, come sempre, sta nel mezzo”, confermando che aveva sponsorizzato Pavolini “per i vincoli di amicizia”, ma che sicuramente nelle intenzioni recondite del Duce vi era la speranza “che l’amico non si dimenticasse dell’amico”7. (Pavolini, di fatto, doveva tutto a Ciano, senza del quale non sarebbe mai emerso dal ruolo di gerarca di provincia). Evitai di chiedergli, però, che nella monumentale opera in quattro volumi di Silvio Bertoldi, dedicata alla Repubblica Sociale8 è scritto che il Duce “scelse Pavolini senza entusiasmo, spinto a ciò soprattutto dal figlio Vittorio, che con Pavolini ha un fresco sodalizio di programmi e forse d’interessi”. I programmi erano chiari: l’idem sentire sul nuovo corso del fascismo, tarato sui diciotto punti del programma varato a Verona, con i quali si cercò d’infondere una dimensione “sociale” alla repubblica, sancendo il primato del lavoro sul capitale e la lotta al capitalismo. (Le aberrazioni razziste contenute nell’articolo sette, però, ne inficiarono irrimediabilmente ogni valenza). Gli interessi? Non c’è dato sapere, anche se forse non andavano al di là di qualche progetto legato al mondo del cinema. Sui rapporti con Hitler e con i principali gerarchi nazisti non era mai trasparso nulla d’interessante. Cosa pensava di loro? Era al  fianco di Hitler, a Rastenburg (oggi Kętrzyn), quando il duce vi giunse dopo la liberazione operata dal capitano Skorzeny nel rifugio di Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Gli chiesi cosa avesse provato in quel momento e cosa pensasse degli scomodi alleati.

Non so fino a che punto rivelò un pensiero maturato nel tempo o concepito già durante il periodo bellico; fatto sta che, una volta tanto, venne meno la sua costante attenzione nel misurare le parole e nel precisare, come già detto in precedenza, che i concetti espressi andavano contestualizzati, per evitare di cadere nella trappola dei giudizi postumi, condizionati dai pregiudizi. 

“Contrariamente a mia sorella Edda, che non ha mai mancato di manifestare la sua simpatia nei confronti di Hitler e della Germania, io ero su posizioni ben diverse. Bisogna considerare che nel 1940 avevo solo ventiquattro anni, mentre Edda ne aveva già 30 e da dieci anni era la moglie dell’uomo che aveva firmato, sia pure con riluttanza e senza convinzione, il “Patto d’acciaio”9. Nel 1937, a 21 anni, mi recai a Holliwood e ne restai incantato. Il pensiero di fare una guerra contro gli americani non mi allettava di certo. Hitler… (lunga pausa) “non basterebbe una giornata per parlarne”.

“A me basta sapere solo quello che provava quando lo vedeva”.

“Non mi piaceva – questo posso dirlo con assoluta sincerità – ma allo stesso tempo, come tanti, ne percepivo il forte magnetismo. E poi vi era una cosa che condizionava molto la percezione che avevo di lui”.

“Che cosa?”

“I sentimenti di amicizia nei confronti di mio padre. Vedere quel cambio repentino, da un tono sempre glaciale a un atteggiamento di profonda ammirazione quando parlava o s’incontrava con mio padre, non poteva lasciarmi indifferente. Ciò premesso mi sono state sempre chiare le differenze sostanziali tra “fascismo” e “nazismo”… ma ora sarebbe troppo complicato scendere nei dettagli.

“E di Goebbels cosa pensava?”

“Un folle. Forse anche più folle di Hitler”.

Oltre che di Pavolini, lei è stato anche molto amico di Farinacci, del quale, oramai, è noto quasi tutto e il quadro che ne scaturisce non è certo edificante. Dalla bufala della mano persa durante un’esercitazione bellica in Etiopia10 al tentativo di convincere Hitler a metterlo al posto del duce, stendendo un velo pietoso su tutto il resto, cosa può dirci ora di un uomo di modestissima cultura11, le cui azioni facevano il paio con quelle di tutti i mediocri miracolati con ruoli  ben al di sopra dei loro effettivi meriti?

Un largo sorriso, evocativo di pensieri lontani, anticipò la risposta.

“Di fatto non ha mai avuto il potere cui ambiva e che spesso millantava. È vero, tuttavia, che è andato ben oltre i suoi meriti, anche se ha pagato con la vita, a cinquantatré anni, la dedizione al fascismo, forse pareggiando i conti. Non era tra i migliori, certo, ma erano tanti quelli peggiori di lui ai quali è andata meglio; molto meglio.

È ora di andare via.

“Comandante, un’ultima domanda: se avesse avuto modo d’incontrare l’ex generale Saverio Polito, cosa gli avrebbe detto?

S’irrigidì ed ebbe quasi un fremito di disgusto, che cercò di contenere. Non si aspettava quella domanda, che lasciava affiorare una di quelle ferite che non si rimarginano, riuscendo comunque a rispondere in modo secco e dignitoso, contenendo i tumulti interiori che comunque trasparivano.

“Proprio nulla. Non si parla con i porci e non val la pena nemmeno di sporcarsi le mani… poi, chissà, avrei dovuto incontrarlo davvero per verificare la reazione12.

Per tutto il tempo della chiacchierata gli era stato vicino, spesso stringendogli la mano, la seconda moglie, Monica Buzzegoli, sposata in Argentina nel 1972, dopo la separazione con Orsola Buvoli, dalla quale aveva avuto due figli: Guido e Adria. Monica all’epoca era una splendida cinquantenne, discreta e delicata, che dimostrava molti anni di meno.  Il forte amore per il “Comandante (così veniva chiamato Vittorio da giovane e così lo abbiamo chiamato per tutto il tempo che siamo stati insieme) traspariva a ogni sorriso. Un amore rivolto all’uomo e non certo al personaggio. Un uomo che ha saputo convivere con un difficile cognome, celando nei meandri più reconditi dell’animo i pur gravi tormenti che da esso sicuramente scaturivano.

NOTE

1) Dal 1969 al 1988 circa 450 morti e oltre 2000 feriti.

2) Non sembri una forzatura, ma in minima parte non erano distanti nemmeno dai bisnonni, con i quali si poteva arrivare alla metà del XIX secolo, il che voleva dire, considerata la lentezza nelle trasformazioni sociali di quel periodo, scivolare ancor più indietro nel tempo e non di poco. Le differenze sono sostanziali e marcano un confine netto tra le diverse concezioni della vita e le reciproche visioni del mondo. Per la generazione degli anni di piombo – ma ciò era valido ovunque, non solo in Italia – era del tutto normale correre il rischio di perdere la vita combattendo per le proprie idee. Anche le frange non coinvolte nella lotta armata guardavano ancora alla guerra come a un evento terribile ma possibile, che sarebbe stata combattuta, in caso di necessità, con la serena consapevolezza che pervadeva i patrioti del Risorgimento (quelli veri), i quali affrontavano il plotone di esecuzione cantando: “Chi per la Patria muor vissuto è assai. La fronda dell’allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni è meglio di morir sul fior degli anni”. In Irlanda del Nord, dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni ottanta vi furono oltre tremila morti, nell’impari lotta tra i volontari dell’esercito repubblicano che anelavano all’indipendenza, mal armati e non certo esperti militari, e l’addestratissimo esercito inglese, i cui reparti speciali si macchiarono di efferati crimini. Le gesta di personaggi come Bobby Sands, che nel 1981 si lasciò morire di fame in un carcere per il suo “amor patrio”, dei giovani idealisti dell’IRA, dei martiri del “Bloody Sunday”, oggi appaiono anacronistiche e incomprensibili a larghi strati della popolazione. E sono passati meno di quaranta anni, ossia meno di “un soffio”, nel caleidoscopio delle ere storiche.

3) In Sicilia, in particolare, si sviluppò in modo massiccio la collusione tra mafia e politica, che ben presto si sarebbe espansa in tutta la penisola. Emblematico fu l’assassinio del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso a Corleone il 10 marzo 1948. L’omicidio fu notato dal giovane pastorello tredicenne Giuseppe Letizia, il quale, sconvolto, raccontò tutto al padre, che scambiò i suoi vani tentativi di raccontare quello che aveva visto per un delirio febbrile e lo portò, il 13 marzo, all’ambulatorio del dottor Michele Navarra, esponente di spicco della D.C., capomafia di Corleone e mandante dell’omicidio di Placido Rizzotto. Un’iniezione letale pose fine a una testimonianza scomoda e lo stato di totale subalternità da parte della povera gente nei confronti dei “padroni” non consentì nemmeno di alimentare un semplice sospetto. Al povero papà fu detto che era morto per cause naturali e tanto bastò.

4) Organismo, sia detto per inciso, molto defilato dal punto di vista operativo e con pochissimi adepti, anche perché la forte caratura ideologica del partito relegava in secondo piano le tematiche di natura economica. Privilegiare il primato della politica sull’economia era senz’altro positivo, ma la riluttanza con la quale si affrontavano le problematiche economiche costituiva un serio problema.  Il Corporativismo, reso spurio delle distonie extra-dottrinarie, presentava spunti di notevole interesse anche nella società contemporanea, perché consentiva di superare la lotta di classe e legare in modo indissolubile due primari fattori produttivi: capitale e lavoro. Va aggiunto, per meglio inquadrare l’argomento nelle varie fasi storiche, che anche in epoca fascista funse più da “bandiera” propagandistica che da reale elemento di politica sociale. Osteggiato dalla Confindustria, al di là dei proclami “reboanti” che ne sancivano l’efficacia, fu ben presto coperto da una cortina di polvere. Giuseppe Bottai ne fu un convinto assertore, almeno fino al momento in cui Farinacci non gli disse: “Lascia un po’ stare il tuo corporativismo. Tanto, neppure Mussolini lo fa sul serio”. (Dal Diario di Bottai. Rizzoli Editore). Nel dopoguerra le tematiche del Corporativismo furono riproposte dall’economista Gaetano Rasi, Presidente dell’Istituto di Studi Corporativi e della Fondazione Ugo Spirito. Ricordo ancora la sua faccia sorpresa quando lo incontrai per la prima volta, nel 1976,  e gli manifestai il proposito di collaborare con l’Istituto. Meno di un anno dopo, ventiduenne, ebbi l’onore di scrivere il primo articolo sulla “Rivista di Studi Corporativi”, affiancando il mio nome a quello di eminenti studiosi e accademici, tutti ultraquarantenni.

5) Vittorio prese parte alla guerra d’Etiopia insieme con il fratello maggiore Bruno, capitano della 14ª Squadriglia Aerea “Quia sum leo”, cui anch’egli fu assegnato.

6) Affermazione non del tutto esatta perché dal 1901 al 1943 l’Italia fu beneficiaria di una concessione territoriale in Cina, sancita dal “Protocollo dei Boxer”, firmato il 7 settembre 1901 dall’impero Qing e dall’Alleanza delle otto nazioni (Francia, Germania, Giappone, Impero austroungarico, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) più Belgio, Paesi Bassi e Spagna, in seguito alla sconfitta cinese nella Rivolta dei Boxer.

7) Ciano fu condannato a morte nel processo di Verona, insieme con altri quattro membri del Gran Consiglio che avevano votato la mozione “Grandi” nella seduta del 25 luglio. È acclarato oramai, che Mussolini avrebbe voluto salvare il genero, ma non poteva intervenire direttamente in quanto Hitler aveva fatto chiaramente intendere che i congiurati arrestati (in particolare Ciano) avrebbero dovuto essere fucilati. Il processo fu un abominio giuridico e una vera farsa in quanto non vi era alcun presupposto per la condanna, essendo stata, la seduta del Gran Consiglio, al di là delle trame che l’avevano condizionata, “regolare” e “legittima”.

8) La Repubblica di Salò – Storia, Documenti, Immagini – Compagnia Generale Editoriale, Milano, 1980-1981.                   

9) Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri dal 1936 al 1943, sottoscrisse nel 1939 il “patto” che stringeva un’alleanza sia “difensiva” sia “offensiva” fra i due Paesi e prevedeva reciproco aiuto politico, diplomatico e militare in caso di situazioni internazionali che mettevano a rischio i propri “interessi vitali”. Ciano, come scrisse nel suo diario, non era favorevole a legarsi “vita e morte alle sorti della Germania nazista”. Era invece favorevole “a una politica di collaborazione perché, nella nostra posizione geografica, si può e si deve detestare la massa di ottanta milioni di tedeschi, brutalmente piantata nel cuore dell’Europa, ma non si può ignorarla”. Non ebbe però il coraggio di dimettersi, di osteggiare il suocero e sua moglie, e così, sia pure malvolentieri, firmò. Scrisse ancora nel suo diario che “non era sicuro se augurare agli italiani «una vittoria o una sconfitta tedesca».

10) Farinacci perse la mano destra mentre pescava con le bombe a mano in un laghetto nei pressi di Dessiè, il 4 maggio, un giorno prima della fine della guerra. Impose a coloro che erano con lui di tacere la verità e avvalorare la sua versione, ossia la ferita bellica, ottenendo in tal modo un vitalizio. Mussolini scoprì ben presto la bufala e lo costrinse a devolvere la pensione d’invalidità in beneficenza. Ettore Muti lo soprannominò “Martin pescatore” e la sua condotta fu ignominiosa anche la sera del 25 luglio 1943, dopo la seduta del Gran Consiglio del Fascismo, quando si presentò “pallido in volto e tremante di paura” alla sede dell’ambasciata tedesca, implorando di avere subito un pilota e un aereo a disposizione per fuggire in Germania, dopo aver indossato una divisa di ufficiale delle SS.

11) Sintomatico a tal proposito quanto scritto dal giornalista Adriano Bolzoni nel libro di memorie “La Guerra dei neri” (Ciarrapico Editore – 1981). Bolzoni era redattore del quotidiano “Il Regime Fascista”, dal “ras” fondato e diretto e cita uno dei tanti sfottò reperibili, già a partire dalla fine degli anni venti, su “Il Becco giallo”, settimanale ferocemente antifascista e antifarinacciano: “Non studiò in nessun luogo, ma in sei mesi conseguì licenza elementare, liceale e laurea in utroque”. La tesi per la laurea in Giurisprudenza fu copiata di sana pianta e, smascherato, il ras di Cremona si giustificò asserendo che fu costretto a copiare, essendogli stato impedito dai soliti docenti antifascisti di presentare la tesi da lui redatta, dal titolo eloquente: “La somministrazione di olio di ricino ai sovversivi da parte dei fascisti non può essere considerata violenza privata ma semplice ingiuria”.

12) Nella speciale classifica dei tantissimi “loschi figuri” che riuscirono a cavalcare il ventennio e il post-fascismo, restando sempre a galla, Saverio Polito occupa senz’altro posizioni di primo piano. Entrato in Polizia negli anni trenta, divenne funzionario dell’OVRA, la Polizia segreta del regime, riuscendo persino a entrare nella fascia stretta degli amici e della famiglia del Duce. Caduto il fascismo, passò in un baleno agli ordini di Badoglio, che gli conferì il grado di generale di brigata e di capo della Polizia militare del comando supremo, facendogli compiere uno “sbalzo” di carriera che non si era visto nemmeno negli eserciti napoleonici: era solo il capo della 4^ zona operativa dell’OVRA, che comprendeva le regioni Umbria e Abruzzo-Molise, dove non è che avesse tanto lavoro da svolgere.  Fu lui che scortò Mussolini, dopo l’arresto a Villa Savoia, nel suo peregrinare tra Gaeta, Ventotene e Ponza. E fu lui, soprattutto, che andò a prelevare Rachele Mussolini a Villa Torlonia, il 2 agosto 1943, per condurla a Rocca delle Caminate. La moglie del duce aveva cinquantatré anni, un’età che, insieme con i tragici eventi della sua tormentata vita, aveva affievolito, e non di poco, lo splendore giovanile. Lungo il tragitto, messosi volutamente accanto a lei nei sedili posteriori, l’uomo rivelò la sua spregevole indole, importunandola continuamente e obbligandola a masturbarlo, nel mentre le rivelava che aveva sempre finto di essere fascista e che se lei voleva salvarsi doveva assecondarlo in tutto. Le si rivolgeva dandole il “tu” e dopo essersi sessualmente sfogato le consegnò il suo biglietto da visita, per i “futuri incontri, nel di lei interesse”. Donna Rachele denunciò quanto accaduto nel mese di aprile 1944 e i Servizi segreti della neonata Repubblica Sociale riuscirono a scovarlo e ad arrestarlo. Il Tribunale di Bergamo, nell’udienza del 20 marzo 1945, lo condannò a ventiquattro anni di detenzione. Trasferito presso il carcere di Parma ebbe anche la spudoratezza di scrivere ripetutamente a Mussolini, implorando il suo perdono. A guerra finita, i pochi mesi di detenzione per una sentenza emessa da un tribunale fascista furono sfruttati egregiamente per farsi passare da “vittima”. Reintegrato nei ruoli della Polizia, raggiunse il grado di questore ed era a Roma, nel 1953, quando sulla spiaggia di Tor Vajanica fu uccisa la giovane Wilma Montesi. Tra i principali sospettati dell’omicidio vi era Piero Piccioni, figlio di un alto esponente della DC. Polito fece di tutto per depistare le indagini e fu arrestato nel 1954, insieme con Piccioni e il suo complice. Al processo, però, furono tutti assolti e Polito ha potuto così concludere la sua esistenza terrena con la soddisfazione di aver vissuto impunemente, operando in alti ranghi della Pubblica Amministrazione per un quarantennio, facendosi beffa della legge e della morale, appagando ogni bieca deviazione della sua ignobile vita.

Lino Lavorgna

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