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Stato sociale: la chimera possibile

  1. PREMESSA

Non sembri un ossimoro il titolo dell’articolo: occorreva sintetizzare il concetto da sviluppare e mi è sembrato il più adeguato. Lo stato sociale resta l’unica meta perseguibile per garantire accettabili condizioni esistenziali, ma è sotto gli occhi di tutti il suo fallimento,  determinato dal graduale trasferimento dei veri poteri dalla politica alla finanza transnazionale e dalla malsana gestione delle risorse pubbliche. Parlarne rapportandolo a una singola nazione, in una società globalizzata, non è facile; impossibile, di converso, caratterizzarlo a livello planetario in un semplice articolo. Sforziamoci, pertanto, di prendere in esame precipuamente i fatti di casa nostra, riservando solo larvati accenni al resto del mondo. Accantoniamo anche ogni forma di “politically correct”:  nell’ultimo trentennio, infatti, molti osservatori hanno oscurato tematiche valide solo per non apparire anacronistici, adeguandosi a stilemi sociologici sempre più somiglianti alle continue riverniciature di pareti fradicie. Grave errore. Si è dimenticato, per esempio, che la strada per la soluzione dei problemi sociali era già stata asfaltata da Socrate e Platone.  Gli ossimori veri, di fatto, sono stati ben altri e hanno cesellato un’ipocrisia largamente condivisa nella coniazione di improbabili locuzioni, concepite per mettere insieme il diavolo e l’acqua santa (centro-destra, centro-sinistra, destra liberale).  Il tutto condito da un mantra quotidianamente ripetuto fino alla nausea da decenni: “Stiamo precipitando verso il fondo del baratro”. Il fondo, per la verità, lo abbiamo raggiunto da un pezzo ed è nelle sue acque putride e melmose che annaspiamo.

  1. CONFUSIONE CONCETTUALE

Se chiedessimo a chicchessia di spiegare cosa preveda uno stato sociale, sentiremmo concetti che, anche nella esposizione più banale, descrivono uno stato assistenziale. I più preparati parleranno del “welfare state” e delle tante conquiste ottenute dal diciassettesimo secolo ai giorni nostri su vari fronti: sanità, pubblica istruzione, indennità per i meno abbienti. La sostanza non cambia: i provvedimenti, pur avendo una matrice politica, vengono recepiti nella loro essenza economica. Uno stato sociale, in realtà, è una cosa ben diversa da quello assistenziale, anche se quest’ultimo contemplasse soluzioni innovative e senz’altro valide come il reddito di cittadinanza e lo svolgimento di lavori socialmente utili retribuiti. Siamo ancora alla mano di vernice su una parete umida. Solo in pochi saprebbero rappresentarlo adeguatamente, sancendo il primato dell’Uomo sullo Stato,  quello della Politica sull’economia e retrodatando i suoi prodromi di molti secoli. Gli antichi romani avevano compreso l’importanza di soddisfare i bisogni primari dei cittadini e istituirono “l’annona”, ossia la distribuzione gratuita del grano, cui fece seguito quella di altri generi di prima necessità e l’accesso gratuito alle terme e al teatro. Ritenevano, infatti, che “un popolo affamato è un popolo arrabbiato”. Questo concetto è ben sviluppato in un buon saggio dell’attuale sindaco di Londra, Boris Johnson, “Il sogno di Roma”, scritto nel 2010 e pubblicato in Italia da Garzanti. In esso, il pittoresco politico inglese (che è bene ricordare discende da una famiglia con origini inglesi, turche, russe, ebraiche, francesi e tedesche), sostanzialmente spiega che l’antica Roma dovette affrontare una sfida non dissimile da quella affrontata oggi dall’Europa, alle prese con i problemi interni e con quelli generati dall’immigrazione. Vi è un solo errore nella sua pur valida analisi: la definizione della politica romana come “assistenziale”. L’annona, invece, sia pure embrionalmente, aveva tutti i presupposti di una vera politica sociale: non creava disarmonie ed era strutturata con regole protese a bloccare sul nascere il convincimento che “Papà Stato” pensa a tutto.

Il prosieguo della storia dell’uomo, purtroppo, ha via via annichilito questo aspetto e la realtà contingente dimostra – diciamolo senza tanti giri di parole – che la nostra epoca non è in grado di individuare una soluzione al problema sociale, nonostante essa esista, come vedremo in seguito. Questa difficoltà era già  stata compresa da Argo Vilella, nel 1978, quando scrisse che “Tutte le riforme e tutte le rivoluzioni sono destinate a fallire se l’uomo non identifica nell’essenza della propria interiorità le cause che conducono dalla decadenza delle antiche istituzioni al vuoto attuale”. (“Una via sociale” – Società Editrice il Falco). L’intero saggio, manco a dirlo, è incentrato sull’importanza della centralità dell’Uomo.

3. CRISI DEL MONDO MODERNO E DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA

Negli ultimi settanta anni, soprattutto in Occidente, si è registrato il trionfo della “democrazia rappresentativa”, che consentirebbe di delegare il potere a soggetti in grado di garantire una soddisfacente qualità della vita. Come mai, ovunque, l’uomo è stato così stolto da tirarsi continuamente la zappa sui piedi?

Essendo impossibile, per ragioni di spazio, la disamina delle cause temporalmente più lontane, si può solo fare riferimento ad alcuni testi fondamentali, in aggiunta a quelli già citati: “Gli uomini e le rovine” di Julius Evola; “Rivolta contro il mondo moderno”, sempre di Evola e “Il Tramonto dell’Occidente” di Oswald Spengler. Non sorprenda la citazione di un testo scritto nel 1918. Soprattutto i giovanissimi, propensi a considerare vetusto e inutile ciò che precede “l’oggi”, riconsiderino in fretta tale scemenza e tornino allo studio serio dei classici, perché è lì che troveranno molte risposte ai propri tormenti e forse la strada per sconfiggerli.  Ritorniamo al tema, pertanto, analizzando due fattori della produzione, capitale e lavoro, che condizionano pesantemente le scelte di ogni individuo. I lavoratori conoscono bene la loro condizione: vi sono i privilegiati, che beneficiano di uno stipendio sicuro, a volte guadagnato scaldando sedie, soprattutto nella pubblica amministrazione; vi sono gli sfruttati, che sgobbano molte ore al giorno, spesso in contesti miserabili. Anche gli imprenditori sanno “ciò che sono”: sia i pochi che si comportano onestamente sia i tanti che schiavizzano le persone (in tutti i modi, anche con ricatti sessuali), corrompono i politici, evadono le tasse. Un quadro desolante, reso ancora più triste se vi aggiungiamo altre categorie che incidono profondamente sui due fattori: i sindacalisti e i politici.

Culturalmente di infima qualità, propensi solo a tutelare se stessi grazie ai continui compromessi con coloro che dovrebbero combattere, a percepire lo stipendio senza lavorare, a concedersi belle vacanze a spese degli iscritti mascherandole da convegni e, quando il ruolo lo consente, a rubare a man bassa nelle casse federali, i sindacalisti rappresentano un corpo non meno marcio di quello politico, per il quale è superfluo ribadire critiche trite e ritrite. Con questi presupposti, quale stato sociale vogliamo creare? In Italia manca la cultura del lavoro e senza di essa si possono solo recitare le sceneggiate che trasudano quotidianamente dagli schermi televisivi e dai giornali buoni per incartare le cozze. Una società marcia fino al midollo non può che farsi rappresentare da persone marce, nella folle speranza di sopravvivere nel proprio orticello, grazie alla “protezione”, indipendentemente da ciò che accade negli altri orticelli.  È solo quando iniziano a scarseggiare gli ortaggi che si creano le premesse per un cambiamento, anche se molto lentamente, perché nell’occidente l’epoca delle rivoluzioni è terminata e l’ideale romantico che consentiva di rischiare qualcosa per l’affermazione di un principio ritenuto giusto, valido fino alla metà degli anni ottanta, è stato completamente spazzato via dalla veloce mutevolezza dei costumi e il suo assunto è del tutto incomprensibile per i giovani di oggi.

  1. IL CORAGGIO DELLA VERITA’: PARLIAMO DI CORPORATIVISMO

Da otto anni la crisi economica – che come più volte ripetuto è una crisi dei valori – domina la cronaca quotidiana. I tredicenni di otto anni fa sono cresciuti bruciando un periodo importante della loro vita in una realtà sociale turbolenta e drammatica. La mia generazione, in analoga fascia di età, ha sì vissuto anni turbolenti e drammatici, maturando però esperienze che sono servite a temprare un carattere, a trovare un sentiero, a crescere in fretta. I giovani di oggi vivono esperienze frustranti che li rendono insicuri, con quali nefaste conseguenze è facilmente immaginabile, quando non ampiamente riscontrabile. I vincenti, coloro che emergono dalla massa amorfa e impaurita, volando verso le alte vette del successo, lungi dall’essere i “migliori”, sono solo coloro che più rapidamente riescono a marciare al passo con i tempi, assimilandone le distonie e lasciandosi contaminare da esse, per poi gestirle affinché risultino funzionali ai propri progetti.

La genialità trova pratica attuazione precipuamente in quelle attività che generano facili guadagni grazie alle potenzialità del mondo virtuale, non ancora ben decantate dalla moltitudine degli esseri umani, che quindi diventano facili prede. Non è accaduto nulla di diverso quando spagnoli e portoghesi soggiogarono le civiltà precolombiane del Sud-America, depredandole dei beni preziosi il cui reale valore era ignoto ai possessori. Lo stesso settore produttivo si nutre del condizionamento manicheo dei consumatori, cui sfugge la differenza tra un utile aziendale configurabile come corretto profitto e il surplus pazzesco favorito dai prezzi finali fuori controllo, che generano da un lato povertà diffusa e dall’altro una massiccia concentrazione di capitali. Chi spende ottocento euro (o anche più) per un telefonino che potrebbe essere venduto tranquillamente a centotrenta, consentendo margini “onesti” a tutti, è un idiota. Ma quanti sono gli idioti, sotto questo profilo? Miliardi di persone e quindi non c’è partita, perché il telefonino è solo uno dei mille e mille prodotti con medesime caratteristiche.  Nel settore terziario, infine, si pratica una violenza delle coscienze che genera veri mostri. I giovani che si affacciano al mondo del lavoro, magari con le migliori intenzioni, vengono formati ed avviati ad attività truffaldine, da estrinsecare soprattutto a danno delle persone più deboli e più facilmente abbindolabili, a partire dagli anziani. A questi giovani viene inculcato, da autentici criminali che gestiscono società anche importanti e dai fatturati plurimilionari, il principio del “mors tua vita mea”. Sicuramente tra chi legge vi saranno le vittime di compagnie energetiche e telefoniche che hanno stipulato contratti di subentro fasulli, nonché coloro che hanno riscontrato l’azzeramento del credito telefonico in virtù di  abbonamenti a servizi mai richiesti. Queste società, ancorché legali sotto il profilo giuridico, basano la loro attività sulle truffe, sulle capacità truffaldine di dipendenti appositamente istruiti e sulla vulnerabilità delle vittime.

Uno stato sociale non sarà mai possibile fin quando non si realizzerà un vero equilibrio nei fattori della produzione, superando il capitalismo e la sua degenerazione rappresentata dalla finanza, nonché educando i cittadini a una sana gestione delle proprie risorse economiche, anche attraverso una corretta informazione sui reali costi di produzione.

Un processo possibile solo quando la politica assumerà un ruolo che le consenta di essere scritta con la “P” maiuscola e l’economia sarà incanalata nel suo alveo naturale, che è quello di organizzare l’utilizzo delle risorse per soddisfare al meglio i bisogni collettivi e non di essere manipolata per creare disparità sociali e l’arricchimento di pochi. Un sistema economico “sposabile” con questo presupposto esiste e si chiama “Corporativismo”. È l’unico! Qui non vi è più spazio per parlarne e pertanto rimandiamo al prossimo numero un’articolata trattazione di teorie tanto valide quanto misconosciute. Qualche anticipo, tuttavia, è riscontrabile nell’articolo dedicato al compianto Gaetano Rasi.

Lino Lavorgna

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