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Patriottismo: bella parola quando non fa rima con razzismo e fanatismo

“Nessun uomo ha colpe o meriti per dove nasce, ma solo colpe o meriti per come vive”. Coniai questo aforisma negli anni ottanta e l’ho periodicamente ribadito in vari contesti. Lo utilizzo anche come incipit di questo articolo, con il quale mi prefiggo di lasciare affiorare – sia pure nei limiti concessi dallo spazio disponibile  e quindi trattando l’argomento per grandi linee – le luci e le ombre del patriottismo, sentimento diffuso e controverso, che a volte caratterizza degli eroi e altre degli imbecilli. L’analisi precipua, pertanto, riguarda il rapporto degli esseri umani con il “sentimento”, sotto un profilo prettamente culturale. È proprio da questo rapporto, infatti, che sono scaturiti gli eventi cronologicamente accaduti nel corso dei secoli, segnando la storia dell’umanità, nel bene e nel male.

 I DUE VOLTI DEL PATRIOTTISMO

Un mio docente di Storia, ahimè tanti anni fa, sosteneva che esiste un patriottismo buono e uno cattivo e ne sviscerava la differenza con la semplicità espositiva che serve a un agronomo per spiegare quella tra le mele sane e le marce. Trovavo stridente il suo metodo analitico e non riuscivo ad accettarlo. Un sentimento non è un frutto che possa marcire: se muta, muta anche terminologicamente. Il fluire del tempo e tante letture mi hanno consentito di affinare quell’istintivo spunto critico, conferendogli un senso logico. Esiste un patriottismo buono; quando diventa cattivo si trasforma in altro: razzismo o fanatismo e talvolta le due cose coincidono . “Il Patriota coltiva l’amore; il razzista l’odio. Il Patriota uccide se deve difendersi; il razzista uccide perché si sente superiore”. La storia dell’umanità riassunta in venti parole.

“Se sapessi una cosa utile alla mia nazione, ma che fosse dannosa per un’altra, non la proporrei al mio principe, poiché sono un uomo prima di essere francese, o meglio, perché io sono necessariamente un uomo, mentre non sono francese che per combinazione”. Mi si perdoni l’autocelebrazione, ma un pizzico di vanità non è colpa grave: quando scoprii questo aforisma di Montesquieu, qualche anno dopo aver concepito il mio, che ne ricalcava l’essenza, il sorriso dell’anima sgorgò immediato e spontaneo. La gioia quando il proprio pensiero riscontri valide conferme, del resto, accomuna tutti gli studiosi. Peccato solo che i princìpi insiti nel nobile presupposto non abbiano trovato pratica attuazione, essendo stati ben altri quelli che si sono affermati.

LE PAROLE SONO IMPORTANTI

Ovunque, nel mondo, alterando il concetto di patriottismo, si sono perpetrati crimini immani e autentici tiranni sono stati idolatrati come divinità. E’ senz’altro superfluo, in questo contesto, dissertare su eventi beneficiari di un idem sentire e per i quali non fanno testo le sciocche confutazioni di coloro che, per le più svariate ragioni, vogliono plasmare la storia in funzione di una distorta weltanschauung: orrori del nazismo; genocidio armeno perpetrato dai giovani turchi; holodomor staliniano che causò la morte di sette milioni di ucraini; massacro di Katyń, perpetrato sempre da Stalin per impedire che in Polonia sorgesse una classe dirigente in grado di contrastare l’espansionismo sovietico; vittime delle foibe titine e numerosi altri crimini giustificati da un malsano senso della patria. Va solo precisato, casomai, che se è possibile seppellire con una risata le tante stupidaggini revisionistiche perpetrate da chi si ostini a negare l’evidenza, altrettanto non si può fare nei confronti di coloro che, rifugiandosi nella ragion di stato, accettano ignominiosamente le fuorvianti distorsioni della storia. Sono ancora molti i governi, per esempio, che per paura di offendere la Turchia non riconoscono il genocidio armeno; ancora meno quelli che riconoscono come genocidio lo sterminio per fame in Ucraina.

Nella sua caratterizzazione negativa, il patriottismo  si divide in tre sottocategorie: quello propugnato dai criminali tout court, quello figlio dell’ignoranza e del degrado sociale,  quello dei fanatici illusi. In alcuni paesi dell’America Latina, per esempio, personaggi come Trujllo, Batista, Pinochet, Vargas, Videla, Stroessner, hanno costituito il volto sporco e consapevole del potere. I crimini perpetrati erano tali anche nella mente dei loro autori, che non avevano bisogno di giustificazioni ideologiche: a loro interessava mantenere il potere a qualsiasi costo e i nemici andavano abbattuti. Punto. A tal proposito va detto che vi è ancora dell’oscurantismo sulle dittature in America Latina, molte delle quali foraggiate dai paesi dell’Occidente, Stati Uniti in testa. Letteratura e cinematografia hanno fatto la loro parte, offrendo uno spaccato significativo delle atrocità commesse, ancorché ancora lontanissimo da un quadro esaustivo. Opere importantissime, tra l’altro, sono sistematicamente boicottate, specialmente nel nostro paese, dove è impossibile reperire, per esempio, film come “La rivoluzione delle farfalle”, “La notte delle matite spezzate”, “Sur”, “Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977”, per citarne solo alcuni tra i tanti che meriterebbero menzione. Un altro recente capolavoro, “Colonia”, per nulla pubblicizzato, ha incassato la miseria di 163mila euro, il che vuol dire che è stato visto da non più di 23mila persone! (Solo per un termine di paragone: “Quo vado”, di Checco Zalone, sicuramente divertente, ma non certo destinato a restare negli annali dei classici della cinematografia, ha incassato più di 65milioni di euro, è stato visto a cinema da oltre dieci milioni di persone ed è replicato in continuazione da SKY, dove è disponibile anche imperituramente “on demand”!)

Non sembrino questi dati di poco conto: la disinformazione è sempre alla base di scelte sbagliate e di errati convincimenti sui fatti che condizionano la vita degli esseri umani. In un paese dove si legge pochissimo e si studia male, le verità storiche apprese da film ben fatti posso sviluppare senso critico e aprire la mente. Vanno visti, però! Un’altra faccia del patriottismo malsano è quello figlio dell’ignoranza, i cui rigurgiti sono ben evidenti anche nella società contemporanea. Il regista Martin Scorsee lo ha lasciato affiorare in un capolavoro della cinematografia, “Gangs of New York”, nel quale risalta in modo eccelso la paura dei nativi americani per il massiccio flusso migratorio agli inizi del ventesimo secolo e la feroce violenza perpetrata contro gli immigrati irlandesi.  Fenomeno che coinvolse anche gli italiani, sia pure in forma minore, anche perché i nostri connazionali riuscirono a impossessarsi del territorio e a dominarlo in tempi più brevi di quelli che servirono agli irlandesi per integrarsi.

Se si vuole tributare al termine “patriottismo” una caratura esclusivamente nobile, pertanto, è bene effettuare una chiara distinzione tra i diversi comportamenti e denominarli appropriatamente. Le parole, come sosteneva Nanni Moretti, sono importanti.

Il PATRIOTTISMO FANATICO

Molto probabilmente non è mai esistito Nicolas Chauvin, considerato che di lui non si sa praticamente nulla, eccezion fatta per la sua dedizione a Napoleone, che avrebbe servito nel primo esercito della Repubblica e poi nella Grande Armata. Di sicuro è dal suo nome che deriva il termine “sciovinismo”, ossia la più esecrabile forma di nazionalismo, diffuso in tutto il pianeta come virus in grado di contaminare anche menti eccelse, accecandole. Puskin, per esempio, sulla cui valenza letteraria, poetica e culturale nessuno obietta, in tema di sciovinismo non era secondo a nessuno, arrivando ad affermare che “In materia di letteratura, la lingua russo-slava ha una netta supremazia su tutta l’Europa”.  È impossibile tratteggiare compiutamente l’esaltazione degli sciovinisti, che storicamente precedono, e non di poco, la nascita del termine che li caratterizza. La storia del Giappone, per esempio, è una continua rappresentazione di sciovinismo, sia pure nobilitato da una realtà sociale incomparabile con quella occidentale, che trova leggero affievolimento solo in epoca recente. Variegate forme di sciovinismo, tuttavia, sono presenti ovunque.

Quando ero giovane, fui lasciato da una ragazza con la quale avevo allacciato un rapporto sentimentale, con marcato disprezzo, proprio a causa della sua propensione sciovinista. Affermava di essere fiera delle sue radici calabre e io le feci notare che l’asserzione appariva inopportuna e non adeguata al livello culturale di una brillante studentessa di Scienze Politiche. Magari avrebbe potuto manifestare la sua fierezza per essersi distinta dalla maggioranza dei suoi corregionali, appartenenti a un territorio assurto a fama planetaria non certo per meriti positivi e che già Giustino Fortunato definì uno “sfasciume pendulo tra i due mari”. Non l’avessi mai detto! Non volle sentire ragioni e mi fulminò con lo sguardo, per poi cancellarmi dalla sua vita. Il giorno in cui discusse la tesi, tre anni dopo quell’evento, con mia somma sorpresa mi vidi invitare alla sua festa di laurea. Mi abbracciò a lungo senza parlare, in presenza del suo fidanzato, e passammo la serata a discutere di tante cose, senza alcun riferimento al passato. Era maturata, e bene. Lo sciovinismo non ha una matrice politica ben definita e abbraccia soggetti eterogenei, accomunati dal morboso attaccamento alle proprie radici. Generalmente si tende ad associarlo a un marcato deficit culturale, ma non concordo con questa teoria, che ha una valenza solo parziale e riguarda ben determinati ambiti, per lo più ubicati nell’area occidentale del Pianeta.

Non essendo possibile dissertare compiutamente sulla dedizione fino all’estremo sacrificio, (alla Patria, al Capo, al Monarca), praticata da uomini di sicuro alto livello intellettivo e culturale, rimando per gli approfondimenti ai testi citati nella bibliografia segnalata in calce. La trasversalità politica dello sciovinismo è sempre sublimata da qualche bandiera, non importa se sventolata a casaccio, senza averne assimilato princìpi e valori,  spesso stravolti da comportamenti che ne rappresentano l’antitesi. Il Fronte di Liberazione del Quebec, per esempio, pensava di trasformare la regione francofona in uno stato marxista indipendente. I suoi sostenitori, però, che preferivano le bombe alla dialettica, non esitarono ad assoldare il celebre criminale lionese Jacques Mesrine, che in Francia era stato al servizio degli “ambienti” anticomunisti sostenitori di De Gaulle per motivi non propriamente “ideologici”. Il movimento indipendentista della Sicilia, invece, annoverò tra le proprie fila elementi provenienti dall’area conservatrice, liberali, monarchici, futuri democristiani e un cospicuo numero di autorevoli mafiosi, tutti benedetti da Mamma America, che in loro vedeva un considerevole e utilissimo fronte anticomunista.

IL PATRIOTTISMO IN ITALIA

In nessun paese il termine “patriottismo” appare ambiguo e controverso come in Italia e occorrerebbe un intero saggio per sbrogliare l’intricata matassa. Non ne mancano, per fortuna, anche di pregevole fattura, e alcuni li ho citati nella bibliografia. In questa sezione dell’articolo, pertanto, rispettando l’impronta che gli ho inferto, sorvolerò sui fatti storici e mi limiterò a dissertare sulla percezione del sentimento nelle varie epoche. Alcuni storici associano il primo vagito del patriottismo italiano al celebre invito che Machiavelli rivolse ai nobili: “Pigliare l’Italia e liberarla dai barbari”. Laddove i barbari altri non erano se non quei dominatori che il suo concittadino e quasi coetaneo Guicciardini inglobò nell’altrettanto celebre monito, “Franza o Spagna purché se magna”, che ebbe maggiore presa nella coscienza popolare, nonostante l’anelito di Machiavelli fosse autorevolmente ribadito da personaggi del calibro di Vittorio Alfieri e Ugo Foscolo. Senza disconoscere, pertanto, la valenza culturale delle manifestazioni patriottiche sviluppatesi dal 15° al 18° secolo, a mio avviso la vera data di nascita del patriottismo italiano la si deve spostare ai tempi di Mazzini e Gioberti, perché fu grazie a loro se l’idea di “Patria”, nella sua accezione più nobile, uscì dal ristretto ambito accademico e incominciò a diffondersi come sentimento condiviso da larghi strati della popolazione. Qui, però, la faccenda si complica maledettamente perché entriamo nel vivo delle dinamiche risorgimentali, che vedono affiorare le diverse anime del patriottismo, da Nord a Sud. Non è questo il contesto per affrontare l’argomento e pertanto ci soffermiamo su un altro aspetto, molto significativo, che ci proietta in modo razionale tra le distonie della società contemporanea.

O TEMPORA O MORES

Il patriottismo contemporaneo non ha nulla a che vedere con quello che caratterizzava i nostri nonni e bisnonni. Dirò di più: non ha nulla a che vedere nemmeno con quello che pervadeva i giovani della mia generazione, nati negli anni cinquanta. La realtà quotidiana ci propina costanti rigurgiti di nazionalismo, non scevro di deleterio provincialismo, ma siamo ben lontani dallo spirito che animava i patrioti del 20° e 19° secolo, quale che fosse la causa servita. Un ventenne di oggi, cui fosse chiesto di sacrificare la vita per la sua “Patria”, quella per la quale è disposto a restare ore in fila, al freddo, per un concerto,  per una partita della squadra del cuore o della Nazionale di calcio, risponderebbe con una risata, prendendo per matto l’interlocutore. Le cose, sotto questo profilo, sono cambiate repentinamente in pochissimi lustri.  Coloro che sono nati negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, infatti, antropologicamente, sono più vicini ai genitori e ai nonni che ai figli e ai nipoti, protagonisti della rivoluzione tecnologica. A dirla tutta, e non sembri una forzatura, non sono distanti nemmeno dai bisnonni, con i quali si può arrivare alla metà dell’800, il che vuol dire, considerata la lentezza nelle trasformazioni sociali di quel periodo, scivolare ancor più indietro nel tempo e non di poco.

Le differenze sono sostanziali e marcano un confine netto tra le diverse concezioni della vita e le reciproche visioni del mondo. Per la generazione degli anni di piombo  – la mia generazione – era del tutto normale correre il rischio di perdere la vita combattendo per le proprie idee e, ovviamente, per la Patria.  La guerra era senz’altro considerata un evento terribile, ma possibile, che sarebbe stata combattuta, in caso di necessità, con la serena consapevolezza che pervadeva i patrioti del Risorgimento, i quali affrontavano il plotone di esecuzione cantando: “Chi per la Patria muor vissuto è assai. La fronda dell’allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni è meglio di morir sul fior degli anni”. In Irlanda del Nord, dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni ottanta vi furono oltre tremila morti, nell’impari lotta tra i volontari dell’esercito repubblicano che anelavano all’indipendenza, mal armati e non certo esperti militari, e l’addestratissimo esercito inglese, i cui reparti speciali si macchiarono di efferati crimini. Le gesta di personaggi come Bobby Sands, che nel 1981 si lasciò morire di fame in un carcere per il suo “amor patrio”,  dei martiri del “Bloody Sunday” e delle tante altre stragi, oggi appaiono anacronistiche e incomprensibili a larghi strati della popolazione. E sono passati meno di quaranta anni, ossia meno di un soffio, nel caleidoscopio delle ere storiche.

Andando a ritroso non di molto, come noto, riscontriamo la venerazione per Benito Mussolini, che assunse livelli parossistici, e con essa il forte senso di “italianità”, che sfociò in un patriottismo di maniera soprattutto nelle classi medie. L’alta borghesia e i potentati economici, invece, si votarono al fascismo e al suo capo con la razionalità di chi sceglie sempre per convenienza, senza alcun coinvolgimento emotivo e contrastando con forza il corporativismo, visto come lesivo dei propri interessi, nonostante rappresentasse l’essenza del regime in tema di politica economico-sociale. Un esempio che serve a spiegare meglio le sensibilità di quel periodo lo troviamo in una cronaca del gerarca Bottati, comandante di battaglione durante la campagna d’Abissinia, nel 1936. Sugli elmetti dei soldati vi erano scritte inneggianti al Duce e al Re, per i quali si era pronti a sacrificare la vita, considerando ciò “un grande onore”. Sintomatica una delle frasi citate, letta sull’elmetto di un semplice soldato: “Se vivo, voglio vivere all’ombra della mia bandiera. Se muoio voglio essere crocefisso all’asta della mia bandiera”. Ancora più esplicativa la lettera di un vecchio caporal maggiore, che aveva prestato servizio alle dipendenze di Bottai nella 1^ guerra mondiale. Scrive al suo ex comandante, rammaricato, per il “disonorevole” ruolo del figlio, assegnato, “contro la sua volontà”, a un reparto delle retrovie e con mansioni di ufficio! La lettera si conclude con una precisa esortazione per un immediato trasferimento al fronte, possibilmente nel suo Battaglione. “Bravo fesso”, esclamò il Generale Bertini, quando Bottai gli riferì della lettera.

Nel sentimento popolare non siamo lontani, pertanto, dallo spirito dei soldati napoleonici di Lipsia e Waterloo e gli esempi potrebbero continuare a iosa, scorrendo all’indietro le pagine della storia. I ventenni degli anni settanta, se non proprio in modo così marcato e senz’altro con maggiore pregnanza culturale, erano pervasi dagli stessi fremiti ideali. Oggi siamo ben lontani da quei presupposti ed esiste solo un confuso senso della patria, che non è configurabile nemmeno come nazionalismo unanimemente condiviso. L’Italia, del resto, non è stata mai unita e le divisioni sono ben radicate ed evidenti, fino ad assurgere a livello di barzelletta quando nei vari comuni si cambiano i nomi delle strade dedicate ai personaggi storici, con l’alternarsi delle amministrazioni. Emblematica, a tal proposito, la testimonianza del Professor Fabio Finotti, docente di Letteratura Italiana alla Penn  University di Philadelphia, autore del saggio “Italia, l’invenzione della patria”. Girando tra le comunità italiane negli USA, ha avuto modo di comprendere come tanti connazionali, soprattutto del SUD, sventolino orgogliosamente la bandiera italiana, sputando però fuoco e fiamme contro i Savoia, Mazzini, Garibaldi,  professandosi altrettanto orgogliosamente “filoborbonici”. La confusione mentale è alta e ciò che accade tra i nostri confini, dalle Alpi a Lampedusa, non serve ribadirlo.

 IL VOLTO NOBILE DEL PATRIOTTISMO

Patriota a Patriottismo sono due belle parole e proprio per questo vanno preservate nella loro essenza più nobile e sublime, differenziandole dalle distorsioni strumentali, offensive per i tanti che, a giusta causa, a un sano ideale di Patria hanno dedicato la loro vita, talvolta sacrificandola. Dei patrioti irlandesi ho fatto cenno in questo articolo e ne parlo più diffusamente in un’altra rubrica. Sono tanti, tuttavia, gli esempi che potrebbero essere proposti. Il concetto di Patria, quando è ancorato a presupposti di amore e non prevede l’odio nei confronti “dell’altro”, è un nobile sentimento. Un sentimento di cui è pervaso anche l’autore di questo articolo, per il quale la Patria ha un nome magico che gli consente di allargare i confini a dismisura e sentirsi vero fratello di una grande e meravigliosa comunità umana. Pazienza se tale sentimento non è condiviso e ricambiato da tutti. Pazienza e peccato, perché davvero non sanno cosa si perdono coloro che non riescono dire: “La mia Patria si chiama Europa”.

Bibliografia essenziale

Federico Chabod: “L’idea di nazione”. Laterza – 1968

Giuseppe Bottai: “Diario 1935-1944” – Rizzoli – 1982

Giulio Bollatio: “L’italiano”. Einaudi -1983.

Maurizio Viroli: “Per amore della patria. Patriottismo e Nazionalismo nella storia”. Laterza -2001.

Manlio Graziano: “Italia senza nazione?” Donzelli – 2007.

Emiko Ohnuki-Tierney: “La vera storia dei kamikaze giapponesi”.

Bruno Mondadori Editore – 2009

Fabio Finotti: “L’Italia, l’invenzione della patria”. Bompiani – 2016

Lino Lavorgna

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