PROLOGO
Sono europeo, italiano, campano e non ho pregiudizi nel manifestare i miei pensieri più reconditi, le passioni, i tormenti, le preferenze, gli amori per le persone e le cose, anche quando sono consapevole di navigare così contro-corrente da assomigliare ai salmoni che risalgono i fiumi. Nel titolo dell’articolo ho preso a prestito i versi di una celebre canzone degli anni venti, cantata da un’afroamericana trapiantata a Parigi, dove conquistò fama planetaria per le sue esibizioni, non solo canore, nel teatro degli “Champs-Elysées” e nel famoso music-hall “Folies Bergère”. Josephine Baker si riferiva agli USA, parlando del suo paese, essendo nata a Saint Louis, nel Missouri. Il mio paese, invece, si chiama Europa, che continuo a sognare unita. In quest’articolo si parlerà precipuamente della Francia e della sua “grandezza”, cosa diversa dalla “grandeur”, della quale saranno comunque tratteggiati gli aspetti peculiari. Compito cui mi accingo con grande gioia, perché il riferimento all’amore per Parigi, ovviamente, costituisce solo una metafora a supporto di quello profondo, avvolgente e speciale, di cui è tributario il paese che ha dato i natali a tanti giganti del pensiero, dell’arte e della cultura e che solo le persone cupe possono non amare. Se è vero, infatti, che la Francia senza Parigi è come un cosciotto di carne senza mostarda, è altrettanto vero che la Francia è il più bel regno dopo quello dei cieli.
TRIBUTI D’AMORE
La mia famiglia entrò in Italia nel 568 D.C., al seguito di Re Alboino il Longobardo, che dalle fredde pianure della Pannonia mosse il suo fiero popolo verso territori più fertili e temperati. Dovrei provare risentimento, pertanto, per colui che, circa tre secoli dopo, interruppe una florida dominazione, si autodefinì Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum e non si fece scrupolo di deportare in un monastero Re Desiderio e la Regina Ansa, genitori di sua moglie Ermengarda, ripudiata anche lei per avere le mani libere da vincoli matrimoniali nel mutato assetto politico, che lo portarono ad assecondare il Papa e abbandonare i suoi vecchi alleati. Pur avvertendo forte il richiamo del sangue, tuttavia, sarebbe oltremodo stupido se facessi pesare vicende storiche nei sentimenti, senza contestualizzarle. Caso mai ciò è possibile in altri contesti, che afferiscono alle manipolazioni della verità per fini strumentali. Alessandro Manzoni, per esempio, nella sua opera “Adelchi”, al solo fine di compiacere il Papa, lascia trasparire l’idea – grossolana menzogna – che non vi fosse stata integrazione tra Longobardi e Italici. Nel famoso coro del terzo atto tratteggia la figura di Adelchi e del suo popolo con un disprezzo così marcato, da generare un moto di repulsione e grande dolore in chiunque fosse pervaso da un minimo di sensibilità, soprattutto se, ben conoscendo i fatti, nutra sentimenti di affetto, stima e alta considerazione per il figlio di Desiderio e la sua schiatta. Ma questo è un altro discorso e quindi non divaghiamo.
Il mio tributo d’amore nei confronti della Francia, del resto, è consacrato addirittura da quello, molto più autorevole, di un grande pensatore che in Germania addirittura ebbe i natali. Nelle sue “Considerazioni inattuali”, infatti, massacrando David Friedrich Strauß meglio di quanto non sia capace il miglior Travaglio con gli italici babbei, Friedrich Nietzsche, sostenne, di fatto, che i tedeschi possono anche vincere tutte le guerre, ma culturalmente devono sempre andare ad abbeverarsi sulle sponde della Senna. “Il tedesco accumula attorno a sé le forme, i colori, i prodotti e le curiosità di tutti i tempi e di tutti gli ambienti, producendo in tal modo quella moderna varietà di colori da fiera, che i suoi dotti dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il “moderno in sé”; quanto a lui, in questo tumulto di tutti gli stili se ne rimane tranquillamente a sedere. Ma con questa specie di “cultura” che è comunque solo una flemmatica insensibilità per la cultura, non si possono vincere nemici, e meno di tutti quelli che abbiano, come i francesi, una vera cultura produttiva, non importa di qual valore, e di cui noi abbiamo finora imitato tutto, per lo più, inoltre, senza abilità. Se avessimo realmente cessato di imitarli, con ciò non avremmo ancora vinto su di loro, ma soltanto ci saremmo liberati da loro: solo quando avessimo imposto a essi una cultura tedesca originale, si potrebbe parlare anche di un trionfo della cultura tedesca. Frattanto prendiamo nota del fatto che, in tutte le questioni di forma, noi dipendiamo – e dobbiamo dipendere – da Parigi ora come prima: finora, infatti, non c’è stata una cultura tedesca originale. Noi tutti dovremmo sapere questo di noi stessi: lo ha inoltre rivelato anche pubblicamente uno dei pochi che avessero diritto di dirlo ai tedeschi in modo di rimprovero. “Noi tedeschi siamo di ieri, – disse una volta Goethe a Eckermann, – è vero che da un secolo abbiamo fatto veramente molto, ma possono trascorrere ancora un paio di secoli prima che fra i nostri connazionali penetri e divenga comune tanta intelligenza e superiore cultura, che si possa dire di loro che è passato molto tempo dacché erano barbari”. Quest’asserzione nicciana dovrebbe essere stampata, incorniciata e affissa nelle dorate stanze di qualsivoglia potere, in Europa e nel mondo.
GRANDEZZA E GRANDEUR
E’ fuor di dubbio che l’Italia possa vantare la nascita del maggior numero di “Grandi Uomini”, rispetto a qualsiasi altro paese del mondo. Condottieri di epoca romana a parte, che meritano comunque alta considerazione per come siano stati capaci di sottomettere buona parte del continente, in maggioranza sono nati tra il 1200 e 1500 e grazie a loro stiamo campando, ed eternamente camperemo, di proficua rendita culturale. La grandezza dei singoli, tuttavia, è cosa diversa dalla grandezza di un popolo, che si misura dalla capacità di coesione al cospetto d’importanti contingenze sociali, dal livello medio di civiltà scaturito dal comportamento di tutti, dal livello culturale. La media ponderata scaturita dall’analisi di questi elementi fondamentali determina il valore intrinseco di un popolo, sia pure rapportato al periodo cui l’analisi faccia riferimento. La comparazione, poi, di analoghi risultati tra epoche diverse, offre un quadro più esaustivo e veritiero sulla “qualità” di un popolo. Senza addentrarci in complesse comparazioni che renderebbero l’articolo pesantissimo e lunghissimo, diciamo semplicemente che, dal 900 A.C. ai giorni nostri, il territorio che un tempo si chiamava Gallia e dal XII secolo D.C. Francia, è quello che, più di ogni altro al mondo, abbia espresso il più alto livello medio degli elementi che caratterizzano positivamente un popolo. Dato che non va confuso con la qualità della vita, che prende in esame l’organizzazione sociale, l’efficienza dei servizi, i fattori economici e geografici e, da sempre, è appannaggio dei paesi del Nord Europa, ai quali si aggiungono il Canada e l’Australia.
Ogni fenomenologia sociologica, ovviamente, ha una sua genesi, quale che sia la scala di valori che s’intenda rappresentare. Il retaggio ancestrale dei francesi, alla pari di tutti i popoli d’Europa, è quanto mai variegato, anche se l’elemento celtico è quello predominante e per di più caratterizzato da una contaminazione naturale – non di matrice bellica dovuta a conquiste, pertanto – generata dalla graduale comparsa della cosiddetta “Cultura di La Tène”, che si sviluppò nel V secolo A.C. proprio in Francia orientale, in Svizzera, in Austria, in Pannonia, in Ungheria, in Inghilterra in Irlanda e nel Nord Italia. Il retaggio ancestrale celtico è oggi ben evincibile in Francia, sia pure in forma minore rispetto all’Irlanda, rimasta incontaminata dalla dominazione romana. L’argomento è scottante e occorre pesare bene le parole, anche se alla fine le cose comunque vanno dette per quel che sono, avendo cura di evitare generalizzazioni che, prima di essere pericolose, sarebbero ridicole: l’elemento umano che possiede sangue celtico nelle vene ha “qualcosa in più” rispetto a chi ne fosse privo. Il comportamento umano scaturisce da due fattori fondamentali: retaggio ancestrale e condizionamento ambientale. Quest’ultimo ha senz’altro un’incidenza più marcata ed è in grado di annullare del tutto il primo. La sua “potenza”, tuttavia, è inversamente proporzionale al livello culturale dell’individuo: quanto più alta è la capacità di comprendere i misteri della vita tanto minore sarà il condizionamento dell’ambiente sul pensiero e sul comportamento.
In Francia, grazie ai vari processi storici registrati nel corso dei secoli, si sono create condizioni tali che hanno favorito, nella popolazione, l’affermazione di un livello medio più alto di quello che si è registrato altrove. Mi si perdoni la sintesi, ma proprio non è possibile, in questo contesto, andare oltre. Il popolo, coscientemente nelle classi più evolute e subliminalmente per il resto, ha sempre percepito questo elemento di natura prettamente antropologica, che milioni di persone scambiano per un antipaticissimo complesso di superiorità. Tale errore genera quei diffusi sentimenti ostili nei confronti dei francesi, che si riverberano incondizionatamente in qualsivoglia contesto con un rifiuto tanto sciocco quanto pregiudizievole. A chi non è capitato di sentire che “il cinema francese fa schifo”, “la musica francese fa schifo”, “la cucina francese fa schifo”, “i francesi sono antipatici, indisponenti, sporchi, cattivi”? Fa sempre schifo ciò che non si comprende, com’è noto, ma l’affermazione che fa più ridere è quella che caratterizza i francesi come “nazionalisti”, specialmente quando pronunciata da soggetti che non è nemmeno il caso di definire tali, essendo in primis “provinciali” o addirittura pervasi del più becero localismo. Dalla “grandezza” alla “grandeur” il passo è breve, anche se la seconda, pur scaturendo dalla prima, esprime qualcosa di sostanzialmente diverso e va nettamente distinta nelle varie epoche storiche. Sicuramente da condannare il concetto di “grandeur” che si sviluppò ai tempi del Re Sole, che non a casa culminò con la bancarotta, la trasformazione dei nobili in cortigiani e creò le premesse per la Rivoluzione. Nell’epopea napoleonica la grandeur s’immedesima nelle gesta dell’Imperatore.
Di tutt’altra natura, invece, “une certaine idée de la France”, che caratterizza la grandeur dopo il Congresso di Vienna e che trova la sua massima espressione con Charles De Gaulle, capace di far percepire in modo più tangibile la forza intrinseca di cui è portatore ogni francese, a prescindere dalle sue idee. L’idea di grandeur si rafforza con la sua ascesa al potere, aggiungendo al concetto di “une certaine idée de la France” quello di “La France au milieu du monde”. Detto in poche parole, De Gaulle comprese che doveva trasformare la Francia innanzitutto una potenza militare e creare un asse preferenziale Parigi-Bonn. Negli anni sessanta, in pieno accordo con il Cancelliere tedesco Erhard, non ebbe esitazioni nel minacciare l’uso della bomba atomica in caso di attacco dell’URSS alla Germania. Tale assetto in politica estera lo portò a prendere le distanze anche dagli Stati Uniti, portando la Francia fuori dalla NATO, nonché dalla Gran Bretagna, alla quale impedì l’ingresso nella CEE. Il suo scopo, infatti, era mantenere i due paesi, comunque amici, in una posizione di subalternità: al centro del mondo vi era la Francia. Mi fermo qui e suggerisco senz’altro la lettura dell’eccellente saggio di Maurice Vaïsse, “La Grandeur: Politique étrangère du général de Gaulle (1958-1969)”, Paris, Fayard, 1998. Per quanto concerne la “grandeur” ai giorni nostri, ne parliamo un’altra volta. Questa, è tutta un’altra storia. Ora, con il permesso dei miei quattro lettori, mi concedo qualche ora di buona musica (chansonnier francesi); un bel film (Truffaut, Chaborl, Godard, Renoir, Besson? Boh, non ho ancora deciso: magari chiudo gli occhi e ne prendo uno a caso). Prima di addormentarmi, poi, mi concederò la lettura di alcuni versi di Rimbaud.
Eh, sì! J’ai deux amours: mon pays et Paris.
Lino Lavorgna
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