INCIPIT
“Viviamo in un’epoca di tale finzione che oggi siamo in grado di costruire la nostra identità come la vorremmo noi, non com’è veramente”. (Kasia Smutniak)
IL TERRENO INARIDITO
In genere per un incipit si sceglie un aforisma caratterizzante, concepito da qualcuno noto per l’altissimo profilo culturale. Sia pure con il dovuto rispetto, è proprio impossibile tributare siffatto riconoscimento alla bellissima attrice polacca, vedova Taricone (protagonista della prima edizione del Grande Fratello, morto giovanissimo a seguito di un incidente durante un lancio con il paracadute). Il semplice fatto, pertanto, che un concetto così realistico sull’identità scaturisca dall’esperienza di chi, a soli diciassette anni, decise di sostituire le faticose traduzioni dei classici greci e latini con la più divertente (e soprattutto lautamente retribuita) attività nel mondo della moda e dello showbiz, la dice lunga su come un termine di pregnante valenza simbolica si presti a speculazioni concettuali di ogni tipo, perdendo in tal modo efficacia propositiva.
A ben guardare gli aforismi sull’identità coniati dai soggetti “titolati”, infatti, traspare evidente la recita a soggetto di chi difende la propria o quella ritenuta propria, dopo essersela attribuita, consapevolmente o inconsciamente. E con quale sicumera la si ostenta!
Tanti anni fa mi legai sentimentalmente a una stupenda ragazza calabrese, trasferitasi a Napoli per frequentare il corso di laurea in Architettura, che avrebbe potuto tranquillamente seguire a Reggio, a pochi chilometri dal paese natio. Quando le chiesi il perché della scelta, replicò testualmente, accompagnando le parole con un mesto sorriso: “Tu non hai proprio idea cosa significhi studiare nella mia regione, soprattutto per una ragazza”. Per discrezione omise di aggiungere “bella”; sia pure nella estrema sintesi, tuttavia, ben affiorava il quadro fosco che l’aveva indotta a scappare lontano per costruire il proprio futuro, sobbarcandosi a pesanti oneri economici. Avrei voluto dirle che, purtroppo, non esistevano isole felici e certe squallide modalità comportamentali, non solo afferenti ai ricatti sessuali, si riscontravano a qualsiasi latitudine, ma non riuscendo a trovare istintivamente le parole adeguate a trasmettere un pensiero tanto devastante, tacqui.
In altra circostanza, invece, discorrendo di politica in presenza di amici, ebbe modo di affermare che “era fiera delle sue radici”, cesellando l’asserzione con il solito ritornello cantato da chiunque consideri il posto in cui sia nato il più bello del mondo. Osservai che tanta fierezza non aveva alcun fondamento logico, alla luce di una realtà contingente (allora, come prima ancora e come in seguito) che non lasciava nulla all’immaginazione. Già Giustino Fortunato, del resto, aveva dipinto la regione come “uno sfasciume pendulo sul mare” e forse a distanza di una settantina di anni (eravamo nel 1975) sarebbe stato ancora più caustico. Non avessi mai parlato: mi fulminò con gli occhi, inviperita, e quella sera rientrammo nelle rispettive abitazioni ciascuno per proprio conto. Era stata offesa la sua identità di donna calabrese, da lei stessa messa in discussione, però, proprio nel momento in cui dalla Calabria era scappata, ritenendo l’ambiente sociale troppo malato per consentirle prima un sereno corso di studi e poi una proficua e onesta attività professionale. Discorso, ovviamente – è banale ribadirlo – comune a tanti giovani e non certo riguardante la sola Calabria.
Da questo aneddoto emerge il primo stadio della confusione che aleggia intorno all’identità, ossia uno stato mentale che la psicologia definisce “distorsione cognitiva”: si ritiene che le proprie emozioni riflettano la realtà, pur basandosi su un palese errore concettuale, più forte di qualsivoglia ponderata azione, che quella realtà categoricamente smentisce! Il legame con le radici, primario elemento dell’identità personale, non viene scalfito dai fatti contingenti, ancorché coscientemente respinti.
TIPICO ESEMPIO DI DISTORSIONE COGNITIVA
L’analisi composita delle distorsioni cognitive afferenti al concetto di identità richiederebbe un saggio. Il razzismo, per esempio, in tutte le sue componenti e devianze, altro non è, all’origine, se non una cattiva percezione della propria identità. Non potendo elencarle tutte, ne scegliamo una eclatante: la distorsione dell’identità politica.
Da sempre gli uomini si confrontano, a volte anche in modo violento, sulla diversa “weltanschauung”, a prescindere dalla sua natura: etica, opportunistica, elevata, becera. Non vi è nulla di anomalo in questo, dal momento che è la natura umana, condizionata più o meno equamente dal retaggio ancestrale e dall’ambiente in cui si cresce, a determinare lo sviluppo del pensiero e i convincimenti che ci accompagnano lungo i sentieri della vita. Una delle differenziazioni più note, per esempio, è quella che contrappone una concezione sociale definita di “destra” a quella definita di “sinistra”. Due mondi diametralmente opposti, che propongono modelli di vita completamente differenti, ciascuno ritenuto ideale dai rispettivi sostenitori. Tutto ciò al netto delle distorsioni volontarie e consapevoli, perpetrate da chi giochi sporco, su entrambi i fronti, per mero interesse di parte. Costoro, in quest’analisi, non c’interessano: prendiamo in considerazione solo chi sia in buona fede, ossia coloro che si professano onestamente “di destra” o “di sinistra”. In quanti, se fosse possibile metterli in fila, sarebbero in grado di enunciare una corretta definizione dell’ideologia professata, mettendone in luce gli aspetti salienti? Per quanto riguarda la destra, la questione identitaria è stata già affrontata nel numero 37 di questo magazine: “Destra e futuro”, (giugno 2015; mio contributo a pag. 11). Qui basti dire che oggi, non solo in Italia, il termine è spesso associato a entità politiche completamente avulse da una reale connotazione destrorsa.
Molti sostenitori dei tre partiti che formano la coalizione di centrodestra, infatti (già questo termine costituisce un ossimoro, come più volte spiegato), si definiscono, innocentemente e con convinzione, di destra, in base a banalissimi propositi concettuali, supportati anche da giornalisti e politici un po’ superficiali e un po’ ignoranti. Una volta stabiliti i parametri corretti di una vera destra moderna e sociale (e per quanto riguarda casa nostra, anche europea), qui omessi per amor di sintesi essendo stati più volte ribaditi, risulta evidente che nessuno dei tre partiti abbia titoli per poter incarnare quei valori, vilipesi, per esempio, ogni qualvolta si parli di destra liberale (più che un ossimoro un vero abominio, come ben spiegato nel numero 81 -“L’oppressione liberale”, dicembre 2019; mio contributo a pag. 8 ), senza considerare che la semplice alleanza con il partito di Berlusconi, concepito esclusivamente per la mera gestione del potere e composto in massima parte da soggetti senza scrupoli, che eufemisticamente definiamo “discutibili”, porta chiunque quell’alleanza sostenga mille miglia lontano da un’area di destra degna di questo nome. Anche negli USA registriamo una grande confusione identitaria: i repubblicani sono associati alla “destra”, pur rispondendo a logiche di cinico opportunismo economico e a modalità comportamentali deprecabili, da una vera destra viste come il fumo negli occhi; si tende poi a considerare “comunisti o socialisti” i democratici, che in massima parte non sono dissimili dai repubblicani e si differenziano solo per aspetti di vita sociale che non è azzardato definire di secondaria importanza. Differenze sostanziali, che riguardano precipuamente singole persone culturalmente evolute (pensiamo ad Al Gore, per esempio, a Obama, allo stesso futuro presidente Joe Biden e alla lunga lista di scrittori, saggisti, poeti) rendono ancora più ridicola l’accusa di “social-comunismo”. Ritornando a casa nostra è appena il caso di ricordare che occorre davvero tanta fantasia per considerare di “sinistra” l’attuale classe politica del PD, legata mani e piedi a quei poteri loschi che da sempre hanno rappresentato il nemico primario di qualsiasi movimento “autenticamente” di sinistra.
Un’identità quanto mai ballerina, pertanto, pervade milioni di persone, che recitano a soggetto, senza avere cognizione di cosa effettivamente siano nella realtà.
L’ IDENTITÀ DEGLI IMBONITORI
I poveri diavoli che non sanno cosa siano rappresentano una facile preda per coloro che, artatamente, manifestano una “falsa identità”. Al netto dei truffatori che ne inventano di tutti i colori per gabbare il prossimo, troviamo “truffatori” di alta qualità le cui truffe sono così sofisticate da non costituire alcun reato penalmente perseguibile. Costoro, proponendo una falsa identità del proprio essere, riescono a condizionare le menti più fragili, orientandone le scelte. Parliamo di soggetti in gamba, molto intelligenti, colti, spesso raffinati e di bella presenza, che però trovano più congeniale e appagante mettere il proprio talento al servizio del male anziché utilizzarlo per il bene comune. Questo articolo è stato scritto prima della prova referendaria del 20 e 21 settembre e quindi in piena campagna elettorale, fortemente condizionata dalle vagonate di bufale sciorinate da chi tentava disperatamente di indurre gli italiani a votare contro la riduzione dei parlamentari.
Romano Prodi, per esempio, si è battuto come un leone a favore del “NO”, esortando gli elettori con formule concettuali che è poco definire astruse: “Pur riconoscendo che, dal punto di vista funzionale, il numero dei parlamentari sia eccessivo, penso che sarebbe più utile al Paese un voto negativo, proprio per evitare che si pensi che la diminuzione del numero dei parlamentari costituisca una riforma così importante per cui non ne debbano seguire le altre, ben più decisive per il futuro del nostro Paese”. (Il Messaggero, 29 agosto 2020). In pratica, pur essendo d’accordo sul taglio dei parlamentari, vota “no” perché questa riforma non è da lui ritenuta importante e così deve essere per tutti: secondo il suo bislacco ragionamento, infatti, se fosse considerata importante potrebbe impedirne altre realmente importanti. Vi è venuto il mal di testa? Mi dispiace, perché ora vi tocca anche il carico da dieci. Facciamo un salto all’indietro di quattro anni, alla vigilia della “schiforma” proposta da Renzi, per fortuna sonoramente bocciata dai cittadini. Cosa disse allora l’illustre professore? “Le riforme proposte non hanno la profondità e la chiarezza necessarie, tuttavia per la mia storia personale e le possibili conseguenze sull’esterno, sento di dover rendere pubblico il mio Sì, nella speranza che giovi al rafforzamento delle regole democratiche soprattutto attraverso la riforma elettorale. Dato che nella vita, anche le decisioni più sofferte debbono essere possibilmente accompagnate da un minimo di ironia, mentre scrivo queste righe mi viene in mente mia madre che, quando da bambino cercavo di volere troppo, mi guardava e diceva: ‘Romano, ricordati che nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone’. (Fonte: Comunicato stampa diffuso il 30 novembre 2016)”.
La riforma non gli piaceva, ma andava sostenuta perché vi era una larvata speranza che avrebbe potuto fungere da traino ad altre che gli piacevano. Se non si trattasse di Prodi si potrebbe senz’altro sostenere la tesi della distorsione cognitiva; trattandosi di lui, invece, è evidente che ogni dichiarazione faccia aggio a un gioco delle parti proteso a favorire qualcuno a discapito di altri, con buona pace del bene comune e di cosa effettivamente serva al Paese. L’identità pubblica di Prodi è quella di un uomo di cultura, europeista, leader politico di alto rango, economista, prestigioso accademico, dirigente pubblico e di grandi aziende private, pluriministro, capo di governo; volendo rappresentare la sua vera identità, invece, quale ritratto ne scaturirebbe? L’alterazione dell’identità, naturalmente, risulta tanto più grave e pericolosa quanto più elevato è il livello dei manipolatori. A tal fine citiamo ancora gli Stati Uniti, depositari di una forte identità nazionale, paladini della democrazia, da esportare in tutto il mondo secondo i “loro sacri valori”: senza riscrivere la storia dell’ultimo secolo, pensiamo solo a cosa abbia rappresentato lo scempio iracheno, propedeutico alla nascita dell’Isis (CONFINI nr. 40, “Venti di guerra”, gennaio 2016; mio contributo a pag. 4).
LE IDENTITÀ RELIGIOSE MATRICI DI GUERRE E TERRORISMO
Sorvoliamo. Che ne dite? Questo argomento merita un numero speciale, non un semplice capitolo di un articolo.
L’IDENTITÀ DI GENERE E I DIRITTI CIVILI: LE MOSTRUOSITÀ DELLA SINISTRA.
Per non trasformare questo articolo in un romanzo faccio riferimento a due miei precedenti scritti del 2016: “Doppio cognome ai figli“; “Unioni civili“ Il primo affronta in chiave ironica la barzelletta del doppio cognome; il secondo analizza la crisi della famiglia in virtù delle malsane spinte del modernismo.
PROSPETTIVE IDENTITARIE PER UN MONDO MIGLIORE
L’argomento ha trovato una valida trattazione nel numero 87 di CONFINI (“Per un mondo migliore”, luglio 2020; mio contributo a pag. 10 ) sia pure senza un precipuo riferimento al concetto di identità. È ben evidente, del resto, che in qualsiasi modo si analizzino le fenomenologie sociali, l’identità assume sempre, anche implicitamente, un valore prioritario. Quante volte, in questo magazine, abbiamo affrontato il tema del nazionalismo, evidenziandone luci (poche) ed ombre (tante)? Che cosa è il nazionalismo se non una disperata proiezione della propria “presunta” identità? Nel comportamento della ragazza calabre traspare chiaramente un’identità nazionalista scaduta in becero provincialismo, secondo uno schema mentale che manifesta la sua insipienza e proprio per questo spaventa, essendo diffusissimo: la mia patria è il Paese più bello del mondo; la mia regione è la più bella della mia patria; la mia provincia è la più bella della mia regione; il mio paese è il più bello della mia provincia; il mio quartiere è il più bello del mio paese (a Siena, soprattutto durante i giorni del palio, questo assunto raggiunge livelli parossistici); nel mio palazzo quelli del terzo piano sono proprio insopportabili, ma le due famiglie sul mio pianerottolo sono composte da brave persone, anche se i Pinco Pallo sono un po’ più bravi dei Caio Tizio.
Qualche mese fa un’amica m’inviò il link a un video che non mi lasciò stupefatto solo perché, oramai, vi è ben poco che mi stupisca. Riguardava una ragazza siciliana, diciannovenne, che aveva invitato i genitori al programma televisivo di Maria de Filippi, “C’è posta per te”, per tentare di ricucire il rapporto dopo essere stata ripudiata e cacciata di casa a causa di una relazione non gradita. La ragione? Il fidanzato non era del suo paese e non era diplomato! Anche lei, però, aveva solo la licenza media, ma per i genitori andava bene solo un compaesano, almeno diplomato, in grado di darle “sicurezza”. La vicenda, raccontata così, già appare assurda, grottesca, intollerabile, ma avendo modo, guardando il video, di cogliere l’espressione dei genitori intrisa di odio (terribile soprattutto quella della mamma) e di ascoltare le parole sconclusionate pronunciate da entrambi, si percepisce ancora più nettamente il gap culturale che pervade larghi strati della società (perché in questo caso non vale certo il detto “una rondine non fa primavera”), avvelenati da una disastrosa percezione identitaria. Mi sono messo alla ricerca e sono riuscito facilmente a reperire in rete il video, visionabile al seguente link: C’è posta per te (a partire dal minuto 42). Va visto come emblema dell’ignoranza che alimenta la crudeltà.
IDENTITÀ POSITIVE: GLI EROI CHE SERVONO PIÙ DEL PANE
Altro che la favoletta di Brecht sui popoli beati perché non hanno bisogno di eroi. In una società malata fino al midollo, che vede quotidianamente calpestati i valori più nobili e sacri, bistrattato l’essere ed esaltato l’apparire, come ben detto dall’immarcescibile Claudio Risé, nobilissima figura della cultura italiana oltre che impareggiabile psicoterapeuta, “[…]servono uomini al di fuori della normalità. Figure come Parsifal che cambiano il mondo dei corrotti perché sono in relazione naturale con il trascendente. Le istituzioni da sole non sono in grado di redimersi”. (Articolo su “La Verità”, 23 settembre 2018). Questa citazione, mi si perdoni l’inciso, per me assume un valore tutto particolare: al concetto espresso dall’insigne accademico ho dedicato un romanzo, incarnando in un novello cavaliere della tavola rotonda, non a caso definito proprio “Parsifal”, l’eroe del tempo moderno che si erge contro le distonie epocali, a cominciare dall’ipocrisia di chi si propone con falsa identità, maschera tra maschere, miserabile tra miserabili (Prigioniero del Sogno, Edizioni Albatros, 2015).
Sostiene ancora Claudio Risé nel suo articolo: “L’eroe ha luce, dice il mitologo Karoly Kerenyi nei suoi lavori su queste figure, perché è in una relazione naturale, spontanea, con il mondo trascendente, che ci parla del senso della vita umana, l’unica cosa che lo interessa profondamente. Egli è il risanatore naturale delle istituzioni, proprio perché è cresciuto al di fuori di esse e non partecipa alla loro corruzione. […]L’eroe mitico dell’Occidente dopo la consunzione e decadenza dell’impero romano e della prima fase del mondo cavalleresco di re Artù, è Parsifal, il figlio di un Re guerriero ucciso in Oriente, e per questo allevato dalla madre nella natura incontaminata lontano da ogni corte, pratica e intrigo di governo. […] Gli aspetti mostruosi dei vecchi poteri (anche dentro di noi, non solo nella società), che rifiutano l’autenticità del cambiamento accusandolo di barbarie e inciviltà, vanno messi in condizione di non fare altri danni e rinunciare ai loro mostruosi appetiti. Occorre parteggiare per l’eroe, già presente negli altri e dentro di noi. E saperne riconoscere la luce, aiutandola a crescere”.
Bellissima esortazione che dovrebbe spingere tutti a una maggiore attenzione. A ben guardare, infatti, le masse non hanno mai mancato di affidarsi a quelli che ritenevano “eroi” in grado di redimerle. Solo che hanno sempre preso lucciole per lanterne, scambiando dei mestatori per eroi, per poi disarcionarli dopo aver compreso l’errore. Peccato che i mestatori, anche dopo essere stati disarcionati, trovino sempre il modo di pascolare in un prato florido, mentre milioni di persone non fanno altro che passare da delusione in delusione, trascorrendo la vita in attesa “dell’uomo che verrà”. Potranno solo arrivare altri mestatori, purtroppo, se il primo cambiamento non riguarderà proprio gli individui in cerca di aiuto. Un cambiamento radicale, che lasci affiorare una reale, positiva e solida identità orientata al bene e per nulla disponibile al compromesso, all’intrallazzo, ai sotterfugi, al privilegio del “particulare” e all’affermazione di quell’antica debolezza morale magistralmente rappresentata da Guicciardini e, purtroppo, dura a morire.
Solo se ciascuno sarà il vero eroe di sé stesso e riuscirà ad elevarsi, tra i tanti potrà facilmente emergere il Parsifal meritevole di essere seguito, ossia: “Der Mann der kommen wird”.
CONCLUSIONE: LE VITTIME DELL’IDENTITARISMO CRIMINALE
Non è tutto oro quello che luccica e, ancor più, non tutto quel che è oro brilla.
Le false identità, dai tempi di Pericle, hanno generato milioni di morti. A conclusione di questo articolo rivolgiamo un commosso pensiero alle vittime dei tiranni e dei feroci criminali che, per tutelare la propria identità farlocca, di presunta superiorità, non hanno esitato nel perpetrare veri e propri genocidi. È impossibile ripercorrere tremila anni di storia, ma cerchiamo almeno di citare gli eventi più pregnanti, anche come monito per i più giovani, affinché imparino a concedere fiducia con parsimonia, dopo aver valutato attentamente gli interlocutori, tenendo bene a mente che l’uomo si misura per ciò che ha fatto, non per ciò che dice di voler fare.
I “democratici” cittadini di Atene si sentivano semidei e quando quelli di Melo decisero di restare neutrali nella guerra contro Sparta si offesero a morte. Come avevano osato non servire Atene? Fu del tutto normale, quindi, trucidare gli uomini e ridurre in schiavitù donne e bambini. Roma non si accontentò di violare il trattato del 306 a.C., che diede avvio alle guerre puniche; 160 anni dopo, a vittoria acquisita, dovette distruggere Cartagine, lasciando la città in preda ai saccheggi dei propri soldati. Nel Nuovo Mondo imperi secolari furono dissolti come neve al sole dai civilissimi conquistadores, che riempivano le loro navi di oro e di ogni ben di Dio. Nel Nord America la conquista dell’Ovest costò la vita a cinquanta o forse addirittura cento milioni di nativi: le cifre ballano, ma anche quelle più basse sono terribili. Erano ritenuti inferiori e quindi massacrabili senza pietà. Il ventesimo secolo s’inaugura con il genocidio degli Armeni, vittime della voglia identitaria dei “giovani turchi”, anch’essi illusi di essere un popolo eletto, senza eguali sulla Terra. Hitler prenderà esempio da loro, quando decise di sterminare gli Ebrei: “Chi si ricorda del genocidio armeno?” replicò nel 1939 a chi obiettava che la soluzione finale da lui prospettata non sarebbe passata inosservata. Le grandi purghe di Stalin erano terminate proprio in quell’anno, dopo aver causato la morte di oltre 250mila persone. Da sette a dieci milioni di vittime, invece, le vittime di Holodomor, la grande carestia che colpì l’Ucraina dal 1932 e il 1933, sfruttata da Stalin per far morire di fame la popolazione e portare più agevolmente a compimento il piano di russificazione del Paese. Pochi esempi tra i mille possibili, ma bastano e avanzano per aprire la mente sul concetto di identità.
All’inizio del capitolo ho riportato due citazioni. La prima è abbastanza nota perché incarna un vecchio proverbio, molto diffuso soprattutto nel Sud Europa; la seconda, più raffinata, è stato coniata da Tolkien come verso di una bellissima poesia da Gandalf dedicata ad Aragorn, discendente di un re e legittimo erede del regno di Gondor. Aragorn, dopo aver perso il padre, fu allevato da Re Elrond, che gli nascose le nobili radici fino all’età di venti anni, quando gli consegnò la spada spezzata appartenuta al suo antenato Isildur. “Non tutto quel che è oro brilla”, quindi, perché il puro e forte Aragorn ignorava chi fosse e il suo valore era ignoto anche al resto del mondo, almeno fino a quando non fu messo in condizione di lottare per la salvezza degli umani e ritornare a Minas Tirith con la corona di re in testa. Vi sono molte similitudini tra Parsifal e Aragorn, eroi in grado di cambiare il corso della storia. Nel mondo moderno, e quindi nella realtà, non mancano uomini che possano vantare analoghe peculiarità ma, proprio come recitano i primi versi della bella poesia di Tolkien, costituiscono “oro che non brilla”, perché magari vivono nascosti in luoghi isolati, lontano dalle rovine di un mondo in dissoluzione e dai fastidiosi rumori di folle sempre più assomiglianti a zombi. Vanno ricercati, quindi, con la lanterna di Diogene ed esortati a combattere, mettendosi con umiltà al loro servizio, senza fare storie e soprattutto senza troppe chiacchiere, che non amano. La loro “identità” è la migliore garanzia per costruire un mondo migliore. Buona ricerca.
Lino Lavorgna
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