Correva l’anno 1977 e da meno di due ero stato eletto presidente della Consulta Provinciale Corporativa, in quel di Caserta. Gaetano Rasi, fondatore e presidente della Consulta, lo avevo incontrato una sola volta, in un convegno ufficiale, senza avere avuto la possibilità materiale di interloquire con lui se non per un formale scambio di saluti. Pur appartenendo a una scuola di pensiero che aveva “già” fatto i conti con il passato e si proiettava verso il futuro auspicando una destra moderna, sociale ed europea, guardavo con interesse al Corporativismo, le cui tematiche, se sapientemente interpretate, avrebbero potuto costituire una valida alternativa alle derive marxiste e capitaliste, superando l’anacronistica lotta di classe e legando in modo indissolubile due primari fattori produttivi: capitale e lavoro. E’ bene precisare, tuttavia, che siffatta concezione economica della società, più che azzardata e temeraria, appariva ai più semplicemente incomprensibile e impraticabile. All’interno dello stesso MSI, del resto, la Consulta non è che avesse grande seguito, obnubilata dagli elementi di natura sentimentale e di facile presa per la stragrande maggioranza degli elettori, fortemente ideologizzati. Anche tra i soggetti culturalmente più evoluti, poi, erano tanti coloro che guardavano con disinteresse alle tematiche di natura economica, essendo ben altre le discipline che affascinavano e catturavano l’attenzione. A giusta causa si predicava il primato della politica sull’economia, ma a quest’ultima non si prestava nemmeno l’attenzione che avrebbe meritato e ciò costituiva un serio problema.
Gaetano Rasi queste cose le aveva capite benissimo e le predicava con forza e determinazione, soprattutto in prospettiva, avendo ben previsto le radicali trasformazioni sociali che si addensavano all’orizzonte, senza, per altro, riuscire a scuotere più di tanto l’ambiente. Non accadde nulla di nuovo, del resto. Anche in epoca fascista il Corporativismo funse più da “bandiera” propagandistica che da reale elemento di politica sociale. Osteggiato dalla Confindustria, che ne temeva l’ingerenza nella regolazione dei rapporti economici, fu ben presto coperto da una cortina di polvere. Giuseppe Bottai ne fu un convinto assertore, almeno fino al momento in cui Farinacci non gli disse: “Lascia un po’ stare il tuo corporativismo. Tanto, neppure Mussolini lo fa sul serio”. (Diario di Bottai – Rizzoli Editore).
Gaetano Rasi ha svolto un lavoro eccellente con il suo Istituto, pubblicando una rivista nella quale scrivevano studiosi e analisti i quali, ancorché schierati, rispondevano precipuamente alla loro coscienza e costituivano un vero punto di riferimento culturale sia per l’approfondimento delle vicende storiche sia per la comprensione della realtà contingente. Il suo sforzo consisteva nell’illustrare la validità del Corporativismo, discostandolo tanto dall’ingombrante passato quanto da una superficiale caratterizzazione prettamente economica, fuorviante e limitativa. Più che una dottrina, infatti, per lui era una filosofia di vita insita nella natura stessa dell’uomo e quindi in vitale effervescenza evolutiva, capace di interpretare la società presente e di incidere nella società futura con i naturali adeguamenti alla mutevolezza dei tempi. Grazie al mio ruolo iniziai una assidua frequentazione con l’Istituto. Non gli sembrava vero che un giovane di ventidue anni si appassionasse a una disciplina ostica e molto snobbata. Mi regalò molti libri, esortandomi a studiare bene i fondamentali, per poi adeguarli alle mutate esigenze della società, proprio in ossequio al principio sopra esposto.
Quando l’intesa divenne più marcata trovai il coraggio di parlargli della mia forte vocazione europeista, ritenendo opportuno confessargli che, non fosse altro per un fatto generazionale, il mio approccio con la storia doveva essere necessariamente diverso da quello di coloro che avevano vissuto, magari con ruoli importanti, l’esperienza fascista. “Puoi dirmi tutto quello che vuoi” replicò, esortandomi ad aprirmi senza riserve. Fu così che gli manifestai il proposito di scrivere un articolo “europeista” sulla rivista, scevro della retorica che portava da un lato a cantare “Europa nazione sarà” e dall’altra a considerare l’Italia il centro del mondo. Il dado era tratto e pertanto, vincendo tutte le ritrosie, gli esposi, sia pure in modo raffazzonato, quello che poi è diventato un punto saliente del mio pensiero: degli uomini possono venire da mondi diversi e anche contrapposti, ma se in buona fede intenti a operare per il bene comune, inevitabilmente molte barriere sono destinate a cadere. E sotto questo profilo, sulle tematiche europeiste, non vi erano sostanziali differenze tra le mie tesi e quelle propugnate da Altiero Spinelli e dai suoi adepti del Movimento Federalista Europeo. Mi sorrise e mi disse che era d’accordo, esortandomi nel contempo a stare “molto attento”, ricordandomi la fine che avevano fatto tutti coloro che avevano precorso i tempi. Cionondimeno accettò di pubblicare l’articolo, nel numero di dicembre 1977. In esso parlavo “anche” del Movimento Federalista Europeo e si può ben immaginare l’ostracismo che dovetti subire da consistenti fette di “amici”. La rivista, però, non era letta dai facinorosi e ciò mi risparmiò un po’ di fratture multiple agli arti. Non mi pesava l’incomprensione, del resto, forte del monito del Poeta che troneggiava, allora come ora, in un poster affisso nel mio studio: “Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui”. A ventidue anni avevo scritto su una rivista nella quale figuravano nomi che facevano tremare i polsi, per storia personale, cultura, statura etica. E avevo parlato di Europa, superando i pregiudizi del tempo. Questa gioia, da sola, valeva tutti gli ostracismi possibili e immaginabili.
Sono trascorsi quaranta anni e continuo a scrivere di Europa. Anche l’articolo del 1977 potrebbe essere pubblicato oggi, senza cambiamenti. E questo, senza dubbio, è il dato più triste. Gaetano Rasi ora ci sorride dall’Olimpo dei Giusti, avendo ultimato il suo cammino lungo i sentieri della vita lo scorso venti novembre. Se n’è andato in silenzio, dopo aver vissuto in silenzio. Resta il suo pensiero, che va coltivato come lascito prezioso perché intriso di speranza per un futuro migliore e poggiato su solidi pilastri. Io posso solo ringraziarlo per tutto ciò che mi ha insegnato e soprattutto per avermi capito. Riposa in pace, Maestro.
Lino Lavorgna
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