L’Europa è alla deriva e lo si può scrivere senza punto interrogativo. (Chiedo venia agli “evoluzionisti” del linguaggio, ma trovo orribile l’espressione “punto di domanda”, alla pari di tante altre moderne forzature sintattiche che, dietro la maschera del nuovo che avanza, lasciano solo trapelare un difficile rapporto con le vecchie e chiare regole). La domanda, caso mai, potrebbe essere la seguente: “Quando l’Europa non è stata alla deriva?” Impero Romano, Impero Carolingio, successivi e variegati conati imperialistici, guerre mondiali, progetti federativi post-bellici che antepongono gli interessi economici all’unione politica, evidenziano una continua disgregazione continentale, labilmente fronteggiata solo da pochi spiriti eletti che, sempre con la disperazione nel cuore, dovendo fare i conti con la tragicità del proprio tempo, hanno tentato di trasformare in realtà un sogno. L’Europa, mentre da un lato “illuminava il mondo” grazie a uomini straordinari, dall’altro si è degradata, secolo dopo secolo, fino a trasformarsi in una vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni ideologiche, per lo più culminanti in “ismo”, volendo sorvolare sugli altri nefasti aspetti: rivolte medievali dei Comuni; decadenti e oscene monarchie nazionali; massoneria; esaltazioni irrazionali delle masse, che spesso hanno preso lucciole per lanterne, scambiando i nemici per amici e viceversa. Come è stato possibile tutto questo?
UN PO’ DI STORIA
Un po’ di storia partendo dalla leggenda, non fosse altro per richiamare alla mente un concetto che accomuna tante leggendarie origini, dell’uomo e di luoghi, tutte – diciamo così – “eticamente discutibili”. Europa, principessa fenicia, fece perdere la testa a Zeus, che si trasformò in toro, la rapì e la trombò a raffica in quel di Cnosso, rendendola madre di tre figli, Minosse, Radamanto e Serpedonte, poi adottati dal marito mortale e cornuto, Asterione, re di Creta. Il nome “Europa”, con il quale furono designati i territori occidentali, avrebbe la sua genesi, pertanto, in uno stupro. La leggenda, infatti, ancora oggi definita con fastidiosa leggerezza “il ratto di Europa”, genera l’immagine di una donna spaventata, presaga di essere preda di uno stupratore. Tanti grandi pittori, invece, con un approccio più realistico, hanno raffigurato la giovane principessa sorridente e ben felice di volare in groppa al toro. Se è lecito ritenere, infatti, che nessuna donna saprebbe resistere alle avances di uomini affascinanti e famosi, come, per esempio, Brad Bitt, George Clooney o Cristiano Ronaldo, stendendo un velo pietoso su quelle che la danno allegramente anche a porci bavosi e vegliardi, purché detentori di un qualche potere, risulta davvero difficile credere che ve ne fosse una capace di dire “no” a un DIO. Il primo documento scritto in cui compare il termine Europa, in realtà, risale a un poemetto greco dell’800 a.C., denominato “Inno ad Apollo”, nel quale il poliedrico Dio afferma testualmente: “Qui ho deciso di costruire un tempio glorioso, un oracolo per gli uomini, e qui porteranno offerte pubbliche coloro i quali vivono nel ricco Peloponneso, coloro che vivono in Europa”. Trecento anni dopo, grazie al geografo Ecate di Mileto, si ha la distinzione netta tra Asia in Oriente ed Europa in Occidente.
IL CONCETTO DI EUROPA NELL’ANTICHITÀ
Quando si parla di progetti federativi, soprattutto a soggetti intrisi del più malsano nazionalismo, una delle obiezioni ricorrenti è la differenza sostanziale che caratterizza i popoli europei, a loro dire impossibile da armonizzare. Inconsapevolmente, di fatto, compiono un salto indietro nel tempo di ben XX secoli, perché già Strabone distingueva gli europei delle pianure, pacifici e inclini allo studio delle arti, dagli europei montanari, forti e propensi alla guerra. Contrariamente a quanto asserito da molti storici, poi, non si può parlare di Roma come elemento di coesione tra i popoli assoggettati: il termine “assoggettato”, di fatto, stride fortemente se associato a “coesione”, che invece indica il legame profondo da cui deriva univocità di sentimenti e di atti. Lo stesso discorso vale per il Cristianesimo, che apparentemente “creò un forte legame politico e spirituale tra i popoli”, secondo la visione di coloro che amano narrare i fatti storici adeguandoli ai propri “desiderata”, in questo caso senza tenere conto delle guerre di religione, della Riforma e della Controriforma, dell’Inquisizione, dell’oppressione di interi popoli.
DAL XIII AL XVI SECOLO
Occorre distinguere bene, pertanto, le azioni dei vari popoli europei, intesi come masse di cittadini e classi dominanti, dalle “visioni e suggestioni” di singoli soggetti, veramente esigui, propositori di una Europa immaginifica, che non ha mai trovato oggettivo riscontro in un progetto politico. Già Dante, nel “De Monarchia”, pur nella palese forzatura relativa alla presunta “volontà divina”, con la quale aveva giustificato anche l’espansione romana, riserva all’Europa il compito di formare un impero universale destinato “ad una missione comune di ordine, di civiltà e di armonia”. Peccato che questo nobile proposito sia stato costantemente smentito negli otto secoli successivi, caratterizzati da sanguinose lotte intestine e dallo scisma che indusse molti cristiani a seguire il teologo di Eisleben e le sue novantacinque tesi. Contemporaneo di Martin Lutero era un bizzarro teologo olandese, Erasmo da Rotterdam, il cui pensiero, non dissimile da quello dantesco per quanto concerne l’importanza tributata alla componente religiosa, esalta il concetto di patria comune per l’Europa cristiana: “Non gli inglesi, né tedeschi, né francesi; perché ci dividono questi stolti nomi, quando il nome di Cristo ci ricongiunge?” Nessuno gli diede ascolto, lasciandolo nella triste condizione di chiunque si senta un incompreso, per di più esasperata dai giudizi tranchant di chi, non avendo la capacità di vedere il grigio, sceglie solo tra il bianco e il nero. Erasmo, invece, pur restando cattolico, condivideva molti punti della riforma protestante, della quale però non accettava il punto cruciale, relativo alla negazione dell’esistenza del libero arbitrio: condizione ideale per essere inviso sia ai cattolici, che lo consideravano luterano, sia ai luterani, che non tolleravano la sua volontà di mantenersi neutrale per conferire un impulso più autorevole alla riforma della religione, scegliendo il meglio delle due parti. Quando le posizioni di qualcuno rappresentano un problema per il potere costituito, la propensione è quella di cancellarle e così avvenne nel 1543: i suoi libri furono dati alle fiamme a Milano, insieme con quelli di Lutero. Per cinque secoli Erasmo è stato oggetto di studio prevalentemente in ambito accademico, ma, nel 1993, un certo Silvio Berlusconi, affermando che proprio da un suo saggio aveva tratto l’ispirazione per entrare in politica, perché “le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia”, lo ridestò dall’oblio, inducendo il popolino che incantò con il suo istrionismo a fare incetta de “L’elogio della follia”, non prima di aver provveduto ad acquistare la casa editrice che deteneva i diritti dell’opera (Einaudi), in modo da essere il primo beneficiario del massiccio successo editoriale.
IL XVII SECOLO
Tra il XVI e il XVII secolo l’Europa precipitò in un periodo ancora più buio dei precedenti, caratterizzato da una lunga guerra che, dopo l’iniziale contrasto tra stati protestanti e cattolici, vide coinvolte quasi tutte le grandi potenze e fece riemergere la rivalità franco-asburgica per l’egemonia continentale. Nel 1568 iniziò la guerra tra le sette province unite, che oggi costituiscono il territorio dei Paesi Bassi, e la Spagna; nel 1618, poi, il conflitto si estese al resto d’Europa (guerra dei trenta anni). La pace di Vestfalia, nel 1648, pose fine a ottanta anni di macelleria continentale, segnati da non meno di dodici milioni di vittime, tra militari e civili. Nondimeno fu proprio in quel periodo che, il visionario di turno, concepì il “GRAN DISEGNO”. Massimiliano di Béthune (1559-1641), duca di Sully, già potente ministro delle finanze, alla morte di Re Enrico IV di Borbone, nel 1610, fu nominato membro del Consiglio di reggenza. Ben presto, però, entrò in contrasto con la vedova del sovrano, Maria de’ Medici, la cui politica estera, del tutto opposta a quella del defunto marito (molti storici le imputano la sua morte), fu improntata al riavvicinamento con la Spagna, che favorì addirittura con due matrimoni: il figlio Luigi con l’infanta Anna e la figlia Elisabetta con l’infante Filippo, che divenne re di Spagna nel 1621. Costretto alle dimissioni, il duca si ritirò nel suo stupendo Hôtel de Sully, non distante dalla Piazza della Bastiglia, ed ivi redasse il progetto federativo, conferendone però la paternità a Enrico IV, non si sa se dicendo la verità o mentendo, per rendere più esaltante la figura di un sovrano che, evidentemente, amava molto. Aggiunse anche che Enrico IV aveva elaborato il progetto grazie a un’idea della regina Elisabetta d’Inghilterra, da lui incontrata nel 1601. Il “Gran Disegno” consisteva in un Consiglio d’Europa composto da cinque monarchie elettive (Sacro Romano Impero Germanico, Stati Pontifici, Polonia, Ungheria, Boemia) e quattro repubbliche sovrane (Venezia, Italia, Svizzera e Belgio). I propositi si possono riassumere nella volontà di dirimere le controversie tra gli stati e i contrasti interni tra il sovrano e il popolo. Il tutto condito dalla necessità di elaborare progetti comuni per il perfezionamento della Repubblica Cristiana. Nel 1693, infatti, William Penn, con il suo “Essay towards the Present and Future Peace of Europe by the Establishment of an European Diet, Parliament or Estates”, propose ai sovrani d’Europa un’assemblea legislativa con il compito di emanare norme giuridiche vincolanti per gli stati aderenti, che prevedeva sanzioni punitive nei confronti dei sovrani inadempienti. Anche il suo progetto era ancorato al primato della cristianità, ma non difettava di principi senz’altro forieri di un serio processo unitario: eliminazione delle spese di guerra e ovviamente risparmio di vite umane (l’unione avrebbe annullato sul nascere ogni possibile conflitto); possibilità di viaggiare tra i vari stati con un semplice lasciapassare: nasce così il prototipo del futuro passaporto.
IL XVIII SECOLO
Nel XVIII secolo il primato dei progetti federativi destinati a restare lettera morta, in un continente che continua a scannarsi in guerre fratricide, ritornò alla Francia grazie al “Memoire pour rendre la paix perpetuelle” dell’abate Ireneo Castel di Saint-Pierre (1658-1748), che riprese il “Gran Disegno” di Enrico IV (o del Duca di Sully), perfezionandolo e arricchendolo con una nutrita serie di articoli, tutti protesi a creare una più marcata coesione tra i popoli e a favorire “la pace perpetua”. Se ne omette l’articolata esposizione per amor di sintesi, rimandando il lettore agli “Scritti politici” di Jean-Jacques Rousseau, che alle tesi dell’abate dedica ampio spazio, mettendone in risalto i limiti, l’ingenuità congenita e l’impossibilità di una pratica attuazione, considerato che “in Europa c’è troppa gente interessata alla guerra in vista di personali profitti. Una pace perpetua non farebbe che estendere gli stessi vantaggi economici a tutti, mentre ognuno è invece sempre alla ricerca di beni esclusivi”.
Un cardinale la sa più lunga di un abate e ciò traspare evidente nel pensiero di Giulio Alberoni, che paventa l’unione spirituale del continente e ne parla nello studio intitolato: “Dieta perpetua per mantenere la pubblica tranquillità”. In Europa, secondo Alberoni, non potrà esservi pace sino a quando i singoli stati non avranno soddisfatto i loro appetiti espansionistici. Ergo: occorreva liquidare in fretta l’Impero ottomano e dividere i territori tra i vari stati europei. Il pragmatismo cristiano è esplicito, tanto meglio se suffragato da dati di fatto oggettivi: “I turchi non possiedono nel mondo un piede di terreno che non sia stato conquistato a forza di sacrilegi, imposture, minacce e oppressioni”. Con lungimiranza degna di un raffinato stratega, poi, nella concezione del nuovo equilibrio europeo non assegna al Papa nemmeno uno straccio di territorio eventualmente strappato ai turchi: vuole rappacificare cattolici e protestanti all’insegna di un nuovo spirito di tolleranza e quindi è necessario “porre gli interessi de’ Protestanti ad una condizione medesima con li Cattolici”, con quanta gioia per il pontefice e quante effettive possibilità di successo è facilmente intuibile.
L’ultimo visionario del XVIII secolo è l’abate fiorentino Scipione Piattoli (1749-1809), che fece fortuna in Polonia come influente consigliere di re Stanislao. Soggetto quanto mai singolare e di difficile decantazione, vede ancora oggi molti storici, forse con ragione, mettere in dubbio la sua effettiva adesione all’ordine degli Scolopi. La vocazione religiosa, in effetti, sembra in netto contrasto con un marcato laicismo e con l’adesione alla massoneria. Fu anche un importante esponente dell’illuminismo polacco, che però si differenziava sostanzialmente da quello diffusosi nel resto d’Europa. Legatissimo anche alla corte imperiale russa, ricevette dallo Zar Alessandro l’incarico di trovare una soluzione definitiva al problema europeo. Non è che avesse molte scelte, considerata la natura del committente e pensò bene, quindi, di redigere due progetti che assegnavano alla Russia il ruolo primario nel nuovo assetto politico-geografico: considerato che la naturale zona d’influenza era l’Asia, poteva reggere la politica generale d’Europa garantendo un equilibrio sostanziale in virtù del fatto che non aveva interessi diretti da difendere. Era il primo, ovviamente, a non credere alla fattibilità del progetto, redatto per mera piaggeria, per giunta ben retribuita.
VISIONI EUROPEE POST CONGRESSO DI VIENNA
Il XIX secolo si apre con l’Europa che deve riprendersi dal tornado napoleonico. Il Congresso di Vienna avrebbe dovuto sancire il principio dell’equilibrio e della pace, ma vide solo prevalere le rispettive rivalità e il rigurgito del nazionalismo. La Francia si riprese prepotentemente la scena con un filotto portentoso. Il conte Claude-Henri de Saint Simon (1760-1825), nel 1814, con il progetto denominato “De la reorganisation de la societé europeenne”, sulla scia di quanto già era stato fatto da Rousseau, mise in luce i pregi e i difetti insiti nell’opera dell’abate di Saint-Pierre. Saint Simon riteneva impossibile convincere i sovrani ad unirsi in una confederazione che limitasse il loro potere, essendo tutti pervasi da logiche egoistiche. Con un’alchimia normativa farraginosa e lacunosa, e quindi inevitabilmente destinata al fallimento, affermò che l’unione europea poteva realizzarsi conferendo a Francia e Spagna il compito di stipulare un accordo fraterno, valido per tutti. Per salvaguardare gli egoismi nazionali ogni stato avrebbe preservato il proprio Parlamento, sia pure riconoscendo la supremazia di un Parlamento generale istituito al di sopra dei governi nazionali e investito del potere di giudicare le controversie. Egli stesso si rese conto che un principio enunciato, ancorché valido, per essere recepito ha bisogno di conquistare i cuori prima della mente e spiegò, pertanto, che l’istituzione avrebbe funzionato solo sviluppando una più grande generalità di vedute, capace di trasformare il patriottismo nazionale in patriottismo europeo. Il Parlamento europeo prevedeva due camere e della prima avrebbero fatto parte magistrati, negozianti, sapienti e amministratori: “Per ogni milione di uomini in Europa che sappiano leggere e scrivere, dovranno essere mandati alla Camera dei comuni del grande parlamento un negoziante, un dotto, un amministratore e un magistrato. Così, supponendo che in Europa vi siano sessanta milioni di persone che sappiano leggere e scrivere, la camera sarà composta da 240 membri”. Ciascun parlamentare doveva possedere non meno di 25.000 franchi di rendita in terreni, al fine di garantire la sua piena indipendenza e incorruttibilità, eccezion fatta per coloro che, pur privi di beni, si fossero distinti per talento e ingegno. Al re, posto al vertice del Parlamento europeo, spettava la scelta dei membri che avrebbero composto la Camera dei Pari. Non sapremo mai, però, come sarebbe stato scelto il re cui conferire cotanto prestigioso incarico: Saint-Simon rimandò la soluzione a un’opera successiva, che non scrisse mai. Il pensiero di Saint-Simon, nel suo insieme, non presenta alcun tratto passibile di pratica attuazione e, di fatto, venne stroncato da tutte le correnti sociali.
Di lui ha dato una importante e caustica definizione l’urbanista italiano Paolo Sica (1935-1988), nel saggio “Storia dell’urbanistica”: “La dottrina sansimoniana diviene la veste filosofica e culturale della tecnocrazia (sia di marca autoritaria che connaturata al liberismo) e questo sarà anche il destino personale di gran parte dei seguaci del maestro”. Questo concetto è utile per presentare colui che gli funse da segretario dal 1817 al 1824, per poi tentare di brillare di luce propria. In effetti Auguste Comte è riuscito a conquistarsi il suo posticino nella storia, grazie anche alle continue maledizioni che ancora oggi tanti studenti universitari, costretti a studiare le sue astruse e bislacche teorie, riversano sulla povera guardia reale che, nel 1827, lo salvò dalle gelide acque della Senna, nelle quali si era buttato per porre fini ai suoi giorni, avendo scoperto la deliziosa disponibilità della consorte nei confronti di chiunque le chiedesse di aprire le gambe. Non poteva essere altrimenti, del resto, dal momento che Caroline Massin, di basso ceto sociale (“grisette” in francese), zoccola lo era di mestiere, con postazione fissa nei pressi del Palazzo Reale e tanti clienti rinomati, tra i quali proprio il filosofo positivista, che sposò nel 1825. Ai dotti lettori di “CONFINI” non è il caso di ribadire le sue elucubrazioni dottrinarie e quindi, solo per dovere di cronaca, mi limiterò a citare esclusivamente il progetto federativo, che conferiva alla Francia un ruolo prioritario in quanto “centro dell’Europa” e prevedeva una sola flotta militare, una moneta unica, una stretta alleanza con gli Stati Uniti d’America. Il più noto europeista del XIX secolo è Victor Hugo, autore di un memorabile discorso all’Assemblea Costituente, il 21 aprile 1849, nella veste di Presidente del Congresso della Pace: “L’edificio del futuro si chiamerà, un giorno, Stati Uniti d’Europa. Giorno verrà in cui la guerra sembrerà tanto assurda e tanto impossibile tra Parigi e Londra, tra Pietroburgo e Berlino, tra Vienna e Torino, come oggi lo sarebbe quella tra Ruàn e Amiéns, tra Boston e Filadelfia. Giorno verrà in cui Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania o non importa quale altra Nazione del continente, senza perdere le loro qualità peculiari e la loro gloriosa individualità, si fonderanno strettamente in una unità superiore e costituiranno la fraternità europea. Giorno verrà in cui le pallottole e le bombe saranno rimpiazzate dai voti, dovuti al suffragio universale dei popoli. Un Senato sovrano sarà per l’Europa quello che il Parlamento è per l’Inghilterra, la Dieta per la Germania, quello che l’Assemblea legislativa è per la Francia. Giorno verrà in cui si vedranno questi due gruppi immensi, gli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro tendersi la mano attraverso i mari”. Belle parole.
Prima di passare al XX secolo e ai giorni nostri dedichiamo poche righe, per completezza informativa e senza bisogno di scendere nei dettagli, ai progetti federativi concepiti in Italia, i cui autori, emulando i francesi in tema di autoreferenzialità, a seconda della matrice culturale, conferivano un ruolo guida o alla Chiesa o alla nazione. Antonio Rosmini (1797-1855) fu un convinto assertore di una “società teocratica” che guardava precipuamente a una comunanza morale e religiosa sotto l’egida del Papa, visto come guida spirituale e politica. Il ruolo guida spettava all’Italia perché, nel concerto europeo, “fu sempre il migliore e più fedele sostegno del Papato”. Emblematica la chiosa: “L’interesse della Religione e della Santa Sede Apostolica vuole che si salvi l’Italia a preferenza di ogni altra nazione”. Per Vincenzo Gioberti (1801-1852) la supremazia italiana scaturisce dal papato: “La dittatura del Pontefice, come capo civile d’Italia e ordinatore d’Europa, è richiesta a fondare le varie Cristianità nazionali”. È l’Italia, quindi, che deve guidare “quella lega di Nazioni che chiamasi Europa”. Per Cesare Balbo (1789-1853), l’Europa costituisce un “tutto, una repubblica complessa da venticinque e trenta secoli in qua”. Nel saggio “Le speranze d’Italia” descrive l’interdipendenza degli stati europei che, di fatto, costituiscono una unità continentale governata da leggi i cui pilastri sono il diritto internazionale e il cristianesimo. Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861), diplomatico a tutto campo che teme le rivoluzioni in quanto disgregatrici degli assetti da lui ritenuti validi, individua nella Polonia e nel Piemonte, quest’ultimo quale espressione della nazione italiana, i punti di riferimento per un assetto politico dell’Europa, basato sulla pace e sull’equilibrio: la Polonia “antemurale contro il moto lentamente invasore della potenza moscovita” e l’Italia con lo stesso scopo contro la potenza austriaca. Lo spazio tiranno consente solo la citazione di altri personaggi che, a vario titolo, completano il quadro dei “visionari europeisti”, ciascuno con la propria ricetta, purtroppo sempre condizionata, e quindi inficiata, dalla mancanza di una seria progettualità che sancisse un esclusivo primato dell’Europa Unita, senza riferimenti a stati guida: Terenzio Mamiani (1799-1885); Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888); Gian Domenico Romagnosi (1761-1835); Giuseppe Ferrari (1811-1876). Un discorso a parte meriterebbero Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, che però non può essere affrontato esaustivamente in questo contesto.
IL XX SECOLO
Le lacerazioni delle due guerre mondiali crearono i presupposti per una presa di coscienza protesa a tutelare, innanzitutto, la pace. Nel 1946 si riunirono a Hertenstein, in Svizzera, federalisti europei appartenenti a diverse nazioni. Per la prima volta fu affrontato il problema del trasferimento di sovranità a un organismo federale. Nello stesso anno Winston Churchill propose la creazione degli “STATI UNITI d’EUROPA”. I successivi passi, con la nascita della CECA, della CEE, dell’EURATOM, dell’UNIONE EUROPEA, della moneta unica e dei trattati ancora oggi in vigore, costituiscono la storia che noi contemporanei abbiamo vissuto direttamente, nel bene (poco) e nel male (tanto). La realtà della vecchia baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli la patiamo quotidianamente ed è proprio in virtù di questa realtà che possiamo affermare, serenamente, che l’Europa è alla deriva. E altrettanto serenamente possiamo affermare, alla luce di quanto scritto nelle pagine precedenti, che alla deriva è sempre stata. Una deriva che scaturisce dai limiti della natura umana, che portano l’individuo a considerare come centro del mondo se stesso, il proprio quartiere, la propria città, la propria regione e talvolta, ma non sempre, la nazione nella quale vive. Pensare che la stragrande maggioranza dei cittadini europei possa sentirsi a casa propria, in qualsiasi angolo dell’Europa, come accade a pochi grandi, grandissimi uomini, è mera utopia. I progetti federativi del passato ci appaiono quasi tutti patetici e ridicoli, ancorché concepiti da uomini sicuramente colti, ma incapaci di allargare i confini mentali e, di conseguenza, quelli geografici. Con questo retaggio, dove vogliamo andare? Dietro ogni azione si cela la qualità di chi la pone in essere. E gli uomini al potere oggi, in Europa, li conosciamo. Per ritenere che un serio progetto federativo possa prendere corpo con loro e che siano capaci di trascinare entusiasticamente settecento milioni di persone verso l’unità politica, occorre avere più fantasia di quella che ha consentito a Tolkien di concepire le sue opere. Cosa accadrà, quindi? La sfera di cristallo non la possiede nessuno, ma è lecito ritenere che l’attuale stagnazione, senza prospettive risolutrici, andrà avanti ancora a lungo, peggiorando gradualmente. Contrariamente al ritornello di una canzonetta degli anni sessanta, cantata da Rita Pavone, “un popolo affamato “non” fa la rivoluzione”, ma cerca di tirare a campare. Gli esempi, in tal senso, non mancano. Le prossime elezioni europee daranno sicuramente un forte scossone al canceroso establishment comunitario, ma da qui a sperare che le cose cambieranno in modo radicale, ce ne corre.
Negli anni cinquanta del secolo scorso non si è avuto il coraggio di anteporre l’unione politica a quella economica e si sono creati i presupposti per i successivi disastri. Gli europei non erano ancora pronti a ritrovarsi sotto un’unica bandiera, con un presidente, un unico esercito, un governo federale, un parlamento vero dotato di veri poteri. Non erano ancora pronti, insomma, per gli “STATI UNITI d’EUROPA” e non lo sono neppure ora. Vi è da considerare, altresì, che dal 1941, anno in cui Altiero Spinelli concepì il famoso “Manifesto di Ventotene”, vi è stato un lungo periodo di “buio ideologico”, che ha visto solo dilatarsi smisuratamente il primato dell’economia sulla politica. Nel manifesto di Spinelli, tra l’altro, la definizione di “STATI UNITI d’EUROPA” non compare proprio. Occorrerà attendere ben settantadue anni, affinché, nel 2013, un vecchio europeista fondasse un movimento politico denominato “EUROPA NAZIONE”, dotandolo del più bel progetto federativo mai concepito nel continente. Più bello proprio perché sancisce il primato dell’Europa, vero faro del mondo, grazie a un organigramma istituzionale che prevede compiutamente la realizzazione degli “STATI UNITI d’EUROPA”. Uniti nella diversità, certo, perché la storia non si cancella, ma capaci di guardare avanti sorridendosi e tenendosi per mano, avendo consapevolezza che, se davvero unita, l’Europa è imbattibile, economicamente e militarmente. Culturalmente non serve scriverlo perché lo è da sempre, nonostante tutto. Sembrerebbe tutto facile, ma così non è, perché quel movimento, creato da un visionario il cui nome non cito per modestia, dovrebbe avere proseliti in tutti i paesi d’Europa e invece può contare solo su un esiguo numero di adepti, al massimo buoni per convegni di alto profilo culturale. Con questi presupposti, di cosa vogliamo parlare? Cara vecchia baldracca, continua pure a puttaneggiare nei nuovi bordelli. Vi sono nuove infezioni che ti aspettano. Sono così virulente che non bastano i profilattici per arginarle. Senza contare che a te, da sempre, piace un sacco infettarti. Nessuna speranza, quindi? No! Continuare a sognare non costa nulla, magari cantando sempre lo stesso ritornello: “Da Praga a Stettino, da Roma a Berlino, un sol grido si leva, un solo grido si leva: Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà; Europa, Nazione sarà”.
Lino Lavorgna
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