PROLOGO
Napoli, Hotel Terminus, 20 novembre 1977. Seminario di studi ecologici sul tema: “Ambiente e urbanistica a dimensione d’uomo”. Parte conclusiva del discorso pronunciato dall’autore di questo articolo, all’epoca presidente dell’Associazione nazionale salvaguardia ecologica e dirigente regionale dei Gruppi di ricerca ecologica.
“[…] Oggi, quindi, abbiamo non solo le idee chiare sui limiti dello sviluppo ma anche gli strumenti più idonei per una consona tutela dell’ambiente, ancorata a sani presupposti di sviluppo sostenibile. Paradossalmente, però, se l’Italia può vantarsi di aver promosso il fondamentale rapporto realizzato dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology, ha anche il triste primato di non aver fatto nulla, nell’ultimo quinquennio, per realizzare i programmi in esso suggeriti. Le associazioni ambientaliste tradizionali continuano a organizzare allegre scampagnate e a battersi per la difesa di leprotti, uccellini e agnellini. Nobilissimi propositi, ovviamente, ma evidentemente non bastevoli a fronteggiare i disastri provocati dallo sconsiderato attacco agli ecosistemi.
Non possono fare nulla di più, del resto, essendo in massima parte o espressione diretta di quelle entità che dovrebbero contrastare o ad esse asservitesi, dopo aver ceduto a gradevoli, chiamiamole così, lusinghe. È stata proprio questa consapevolezza che mi ha spinto, due anni fa, a chiudere ogni ponte con loro e a fondare l’ANSE, con il sano proposito di “volare alto”, cosa oggi facilitata grazie al connubio con i Gruppi di ricerca ecologica, che si muovono con analoghe finalità, ma con strumenti di diffusione mediatica senz’altro più potenti ed efficaci. Un dato è certo: non si può tergiversare. Il Pianeta sta morendo e i popoli del mondo non hanno ancora compreso, in massima parte, il baratro nel quale stanno precipitando. Se non dovessimo correre ai ripari in fretta, nel giro di venti-trenta anni potrebbe essere davvero troppo tardi per intervenire.
Tutti noi che ci troviamo in questo splendido salone, e tanti altri amici qui non presenti, ma idealmente al nostro fianco, rappresentiamo la parte sana di questo Paese e l’avanguardia culturale capace di discernere il grano dal loglio. Tocca noi, pertanto, produrre ogni sforzo affinché il validissimo messaggio di civiltà di cui siamo portatori si diffonda e permei le coscienze di chi, magari inconsapevolmente, si rende artefice delle proprie sventure. Possiamo contare solo su noi stessi e non possiamo permetterci di fallire, essendo la posta in gioco troppo alta. È in pericolo la nostra stessa sopravvivenza e pertanto non posso che chiudere il mio intervento evocando il monito di José Ortega y Gasset: “Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest’ultimo non preservo me stesso”.
UN PO’ DI STORIA
Sono trascorsi quarantatré anni da quel convegno che segnò, in Italia, un punto di svolta nell’approccio con le tematiche ambientaliste. Vi parteciparono fior di studiosi e furono tracciate le linee guida per una vera rivoluzione verde, ancorata ai principi sanciti nel famoso “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, commissionato alla prestigiosa università statunitense dal “Club di Roma”, associazione non governativa fondata nel 1968 da Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King con l’intento di studiare i cambiamenti globali, individuare i problemi futuri dell’umanità e suggerire adeguati provvedimenti per scongiurarli. Rileggendo le parole pronunciate circa mezzo secolo fa risulta evidente quanto esse siano pienamente attuali, a riprova che nei decenni successivi non si è fatto nulla né per porre rimedio ai disastri già allora evinti né per prevenire quelli futuri, che invece sono via via aumentati a dismisura.
Il rapporto tra uomo e ambiente per millenni è stato caratterizzato da una armonica coesistenza, mai fonte di particolari scossoni. Nondimeno, già nel 1866, lo scienziato tedesco Ernst Haéckel scrisse un saggio intitolato “Morfologia generale degli organismi”, destinato a diventare famoso perché in esso comparve una nuova parola, derivata dal greco oikos (casa, ambiente) e logos (discorso, studio): ecologia, ossia la scienza che studia i rapporti degli organismi con il mondo circostante.
Concettualmente l’ecologia vanta anche studi più antichi, che possono risalire addirittura ad Aristotele (armonia della natura e tra le specie viventi) e in epoca più recente al medico svedese Carlo Linneo, che nel XVIII secolo sviluppò l’idea di “economia della natura”, in virtù della quale a ogni specie vivente viene assegnato il giusto posto, il giusto accesso al cibo, il giusto tasso di crescita demografica. Con Darwin vengono destrutturati sia la dimensione armonica della natura sia i rapporti tra le specie: la natura può trasformarsi anche in nemico e, all’armonica interdipendenza che caratterizza i rapporti tra le specie, si associa una drammatica competitività, che spesso sfocia in tragedia. Nel 1913 nasce a Londra la “prima società di ecologia” e via via si perfezionano studi sempre più accurati per agevolare un sereno rapporto tra esseri umani e ambiente. Nel 1935 Arthur Tansely parla di ecosistemi, ossia l’insieme degli organismi viventi e delle componenti non biologiche necessarie alla loro sopravvivenza in una certa area.
Gli studi effettuati dagli scienziati fino alla metà del XX secolo, di fatto, servivano a inquadrare le problematiche ambientali in un contesto scevro da distonie particolari ed erano comparabili, quindi, a qualsiasi altro studio concepito per assicurare all’uomo utili strumenti per migliorare la qualità della vita. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, però, lo scenario cambia radicalmente: in pochi anni il progresso tecnologico sconvolse la vita del Pianeta e si registrò una sensibile alterazione del più volte citato “armonioso rapporto” tra natura ed esseri umani. Il vento impetuoso del presunto benessere spirava troppo forte per essere fermato e, nell’Occidente, i rifiuti industriali, i fumi velenosi e i gas di scarico incominciarono a contaminare massicciamente vaste aree, soprattutto quelle più densamente popolate. Se gran parte dell’umanità era cieca e una nutrita minoranza consapevole preferiva privilegiare con criminale cinismo gli interessi personali, anche a prezzo della vita altrui, già negli anni Sessanta incominciarono a svilupparsi movimenti di protesta che, magari in modo confuso e approssimativo, cercavano di contrastare gli attacchi alla natura. Nel 1970, una buona fetta di questi novelli cavalieri dell’ideale, chiamati ambientalisti, decise di far sentire in modo più incisivo la propria voce.
LA SETTIMANA DELLA TERRA
Tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso le città si trasformano in formicai impazziti, con le strade intasate di auto e i gas di scarico che lasciano residui polverosi sui balconi delle abitazioni, in massima parte già munite di efficaci sistemi di riscaldamento. Con ritmo accelerato crescono anche gli impianti di aria condizionata. Le industrie scaricano veleni nei corsi d’acqua e accumulano rifiuti tossici difficilmente smaltibili. Scienziati corrotti, lautamente retribuiti, diffondono il falso concetto di sicurezza delle centrali nucleari. In Italia saranno sconfitti, ma ovunque nel mondo le centrali crescono come funghi dopo una notte piovosa. Dagli schermi televisivi il simpatico Gino Bramieri canticchia quotidianamente, durante il “Carosello” (per i più giovani: intermezzo pubblicitario che andava in onda come apertura dei programmi di prima serata), un ritornello creato ad hoc per le casalinghe: “Emò emò emòemò! Emòemòemò Moplen! Inconfondibile, leggero, resistente, ma signora guardi ben che sia fatto di Moplen”. È la rivoluzione della plastica, già prepotentemente affermatasi oltre oceano, che penetra nelle case di tutti, orientando le masse verso nuovi modelli di consumo.
Nessuno può prevedere che il mondo si sarebbe presto trasformato in una pattumiera, eccezion fatta per i soliti rari nantes in gurgite vasto che, in ogni epoca, essendo per dono di natura “avanti”, riescono a guardare più lontano di quanto non sia consentito a chiunque altro. L’Europa, che da sempre aveva costituito l’avanguardia culturale in ogni campo, non percepisce subito la deriva ambientalista, forse anche a causa del leggero ritardo con il quale il vento del modernismo e del consumismo iniziò a spirare, rispetto a quello che aveva già travolto gli USA. Paradossalmente fu proprio nel Paese che prima di chiunque altro aveva iniziato a inquinare gli ecosistemi – e sicuramente proprio per questa ragione – che si registrarono i prodromi di un sano ecologismo, esploso a livello planetario solo una decina di anni dopo. Un primo labile attacco all’industria avvelenatrice avvenne nel 1962, grazie alla biologa e zoologa Rachel Carson, che nel saggio “Silent Spring” (Primavera silenziosa) criticò l’uso indiscriminato dei fitofarmaci, stimolando l’approvazione di leggi più restrittive, purtroppo sistematicamente boicottate dalle multinazionali, che avevano facile gioco nel corrompere i politici e tacitare le deboli voci isolate che cercavano di arginare il loro potere corrosivo.
Il 22 febbraio 1970, all’improvviso, oltre venti milioni di statunitensi suonarono la prima vera sveglia ambientalista, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson. Nella capitale gli studenti dell’Università George Washington si riversarono per le strade improvvisando sit-in ovunque fosse possibile, per ammonire i passanti. Un profluvio di concetti nuovi e anche controversi inondò il Paese, grazie all’immediata amplificazione della protesta assicurata dalle dirette televisive e radiofoniche. Ciascuno aveva le proprie idee e proponeva personalissime soluzioni, spesso vaghe, fumose e prive di reale substrato scientifico, ma tutti avevano ben chiaro che il Pianeta fosse sotto attacco. Si incominciarono a individuare, sia pure confusamente e con conclusioni talvolta discutibili, le principali cause dell’inquinamento, tra le quali spiccava l’aumento della popolazione, come sostenuto dal biologo Garret Hardin: “Nessuno mai si è preoccupato di come un uomo della frontiera eliminava i suoi rifiuti, finché era solo, ma non appena la popolazione è andata addensandosi, i processi chimici e biologici di riutilizzo e di riciclo si sono andati sovraccaricando. […]La libertà di mettere al mondo altri uomini ci porterà alla completa rovina”. Gli faceva da eco il collega Paul R. Ehrlich: “La catena casuale del deterioramento ambientale può essere risalita fino all’origine. Troppe automobili, troppe fabbriche, un consumo eccessivo di detersivi e di insetticidi, tutta una serie di trappole tecnologiche, impianti per il trattamento delle acque di scarico non adeguati, poca acqua, un eccesso di anidride carbonica: il tutto può essere facilmente attribuito alla popolazione in eccesso”. Un terzo biologo, Walter Howard, ebbe il coraggio di sostenere per primo ciò che poi sarebbe divenuto un mantra di ogni ambientalista: “La società affluente è diventata una società effluente. Il 6% della popolazione mondiale, che risiede negli Stati Uniti, produce più del 70% dei rifiuti del mondo”.
In quel composito e non organizzato esercito, dove ciascuno recitava a soggetto, non mancarono i visionari estremisti, che si buttarono a pesce sul consumismo, esaltando la povertà. È ancora un biologo, Wayne Davis, che parla: “Evviva i neri del Mississippi, con i loro livelli di sopravvivenza e i loro gabinetti all’aperto, perché sono ecologicamente sani ed erediteranno una nazione”. Tanti studenti alimentavano infuocati dibattiti sulla crudeltà degli esseri umani e l’eccessiva propensione al profitto. Il senatore Vance Hartke anticipò il grave problema della tecnologia senza freni, ossia il progresso tecnologico che marciava più velocemente di quello umano: “Una tecnologia senza freni, la cui sola legge è il profitto, non può che aver avvelenato per anni la nostra aria, devastato il terreno, denudato zone forestali e corrotto le nostre riserve idriche”. Se, come abbiamo visto, non mancavano i politici sensibili alle tematiche ecologiche, la stragrande maggioranza era legata mani e piedi con i potentati economici responsabili dell’inquinamento, come ben denunciato da Roderick A. Cameron, direttore esecutivo del Fondo per la difesa ambientale: “I settori politici del governo, che dovrebbero promuovere le leggi e gli orientamenti sollecitati dagli ecologi, sono come colpiti da paralisi. […]Le industrie, abituate a trarre profitti dalla rapina del nostro ambiente, non possono che compiacersi dell’elezione di uomini politici favorevoli alle loro esigenze e delle assunzioni di burocrati che non sono da meno”.
Non mancarono le disquisizioni più raffinate, di carattere filosofico, ancorate a un concetto espresso nel 1966 dallo storico Lynn White, durante una conferenza: “Continueremo a vivere una crisi ecologica, sempre più grave, fino a che non avremo respinto l’assioma cristiano secondo il quale la natura non ha ragione di essere se non in funzione dell’uomo”. La relazione, tutta incentrata sulle gravi colpe che lo storico imputava al cristianesimo, fu pubblicata l’anno successivo nella rivista “Science” con il titolo “Le radici storiche dell’attuale crisi ecologica” ed ebbe grande risonanza mediatica per le tesi che sconvolsero larghe fette della popolazione, aduse a ringraziare il Signore ogni giorno, prima dei pasti, salvo poi dedicarsi alle pratiche più sconce che un essere umano possa concepire, a cominciare proprio dallo spreco del cibo fino a giungere alla sublimazione di quel “mors tua vita mea” che, esasperando la competitività oltre ogni umano limite, contribuisce sensibilmente a rendere mostruosa la società statunitense.
Per White, sostanzialmente, il cristianesimo afferma il dominio dell’uomo sulla natura e stabilisce una tendenza all’antropocentrismo, stabilendo una distinzione tra l’uomo, addirittura formato a immagine di Dio, e il resto della creazione, che non ha “anima” o “ragione” ed è quindi inferiore. Da questa convinzione scaturirebbe una sorta di deleteria indifferenza verso la natura, fonte di guasti non riparabili nemmeno dai soggetti coscienziosi che, con tanta buona volontà, individuano gli interventi più adeguati grazie anche alle maggiori risorse tecnologiche progressivamente rese disponibili dalle nuove scoperte e invenzioni. È tutto inutile, sostiene White, se non cambiano le idee fondamentali dell’umanità sulla natura e non si abbandonano quegli atteggiamenti “superiori e sprezzanti” che ci rendono “disposti a usare la Terra per il nostro minimo capriccio”. Con un chiaro riferimento a San Francesco, infine, lo storico suggerisce di adottare lo spirito insito nel suo messaggio per creare una democrazia del creato in cui siano rispettate tutte le creature e delimitato il dominio dell’uomo sulla creazione.
La Settimana della Terra portò alla ribalta planetaria il problema ambientale, proiettando tante opinioni personali, ciascuna delle quali conteneva un pezzo di verità, senza peraltro riuscire a formulare una teoria univoca per interventi mirati. Nondimeno la sua importanza come stimolo per affrontare seriamente il problema non può essere disconosciuta: solo due anni dopo, infatti, delle chiare e significative linee guida furono sancite dal famoso rapporto del MIT. Non è servito a nulla, come ben sappiamo, forse proprio perché non vi potrà essere nessun effettivo cambiamento se non cambia la mentalità delle persone.
I DISASTRI AMBIENTALI
Bisogna battere molto sulla necessità di un cambiamento “dal basso” perché la storia insegna che gli esempi negativi, in qualsiasi contesto si verifichino, non servono a determinare un radicale cambio di rotta. Un esempio lampante è offerto proprio dalla terribile pandemia che sta angustiando il Pianeta da circa un anno: il forte desiderio di preservare le proprie nefaste e deleterie abitudini (in particolare i milioni di giovani che passano le serate saltando da un bar all’altro per ubriacarsi e impasticcarsi; che non sanno rinunciare al rumore della discoteca e ad altri riti insulsi) favorisce una sorta di inconscia “rimozione del problema” che non consente interventi correttivi ma solo repressivi.
I guasti prodotti dall’uomo per il mancato rispetto della natura sono sotto gli occhi di tutti. A distanza di decenni vaste aree del Pianeta risultano invivibili a causa degli esperimenti nucleari ivi effettuati negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Il continuo depauperamento delle foreste ha reso fragile il territorio, generando immani disastri e numerose vittime; non è da meno l’edilizia selvaggia, che non solo ha abbruttito i territori ma li ha resi vulnerabili; la forte propensione alla corruzione e alla necessità di pagare tangenti, poi, ha indotto i costruttori di opere pubbliche a risparmiare quanto più possibile, col risultato di consegnare strutture fatiscenti, capaci di crollare anche a seguito di piccole scosse telluriche. I grandi disastri ambientali non sono serviti a condizionare positivamente l’umanità e si continua a nascondere la testa nella sabbia, pur di non intaccare i falsi miti del presunto benessere assicurato dall’improprio utilizzo delle risorse naturali.
Quando compii sei anni, il mio Papà, militarmente tempratosi nelle infuocate dune della Libia, mi regalò la divisa dei bersaglieri, l’élite dell’esercito italiano, pronunciando questa frase: “Ti auguro di non dover mai patire i rigori di una guerra, ma se ciò dovesse accadere, fai in modo di servire la patria indossando questa divisa”. Per fortuna la guerra me la sono risparmiata, ma a venti anni ebbi il piacere di indossare realmente quella divisa, al servizio del “18° battaglione Poggio Scanno”, con sede a Milano ed erede del leggendario “III reggimento”, che ancora oggi vanta il primato del maggior numero di medaglie al valore conquistate sui campi di battaglia.
Nella vicina Meda vi era uno stabilimento chimico, l’ICMESA, che balzò agli onori della cronaca il 10 luglio 1976: un reattore collassò a causa del surriscaldamento e, per evitarne l’esplosione, furono aperte le valvole di sicurezza, liberando nell’aria i fumi contenenti una sostanza tristemente famosa, la diossina, tra le più tossiche che esista. L’incidente è passato alla storia come “Disastro di Seveso” e “Nube tossica di Seveso”, dal nome del comune più colpito perché proprio a ridosso dello stabilimento, anche se in realtà i comuni interessati furono quattro: Meda, Seveso, Cesano Maderno, Desio. L’incidente, la cui gravità non poteva sfuggire ai tecnici della società, per molti giorni fu tenuto in sordina e nella zona tutto continuava a svolgersi come sempre. Dopo una settimana, però, cominciarono a morire cani, gatti, conigli, talpe, uccelli e, contestualmente, si manifestarono le prime eruzioni cutanee negli abitanti dell’area. I giornali incominciarono a parlare dell’incidente e finalmente, il 20 luglio, il vertice aziendale diffuse la notizia che i fumi dispersi nell’aria contenevano diossina.
Quei dieci giorni di ritardo nel dare l’allarme, però, costarono molto caro! Furono subito emessi i divieti di consumo dei prodotti agricoli coltivati nei quattro comuni colpiti dalla nube tossica e la cittadina più colpita fu divisa in tre zone a decrescente livello di contaminazione, la prima delle quali, denominata “Zona A”, fu evacuata tra il 26 luglio e il 2 agosto con il temporaneo trasferimento in due alberghi di circa settecento persone. Toccò ai bersaglieri la vigilanza dell’area contaminata e fui inserito nella squadra dei dieci soldati scelti per l’operazione, che consisteva nell’impedire l’accesso a coloro che tentavano di rientrare nelle abitazioni per prelevare oggetti e beni, frettolosamente abbandonati. L’evacuazione rispondeva più a logiche di opportunità politica che scientifiche, come spesso accade in simili circostanze. Che differenza vi poteva essere, per esempio, tra l’ultima casa della zona A evacuata e quella della zona B ad essa attaccata, considerata la vastità dell’area complessiva interessata? È evidente che una soluzione ideale avrebbe richiesto una evacuazione ben più estesa, che però le autorità non si sentirono di adottare.
Le autorità sanitarie, intanto, appurata la presenza di diossina nell’aria, fornirono dettagliate informazioni sui letali rischi connessi alla contaminazione, mettendo in allarme soprattutto le donne in stato di gravidanza, alle quali fu fatto intendere che sarebbe stato opportuno abortire. Un bel paradosso, dal momento che all’epoca l’aborto era vietato. Molte donne, decise ad agire tempestivamente, fecero ricorso agli aborti clandestini; le più abbienti si recarono all’estero. Il sette agosto, però, sull’onda della crescente rabbia popolare, il Governo autorizzò gli aborti terapeutici alle donne della zona che ne avessero fatto richiesta, scatenando un putiferio a livello mediatico tra chi plaudiva all’iniziativa e chi, invece, la contrastava, ritenendo che i bambini dovessero comunque nascere, non importa se deformi.
Al termine del quotidiano turno di servizio, ascoltando il telegiornale, mi mettevo le mani nei capelli: la disinformazione era pazzesca e lo sforzo di attenuare la gravità della situazione semplicemente irritante. Non solo: si esaltava il ruolo dell’esercito nella fase di controllo dell’evacuazione, ma la realtà era ben diversa. Ogni pattuglia era comandata da un sottufficiale dei carabinieri che, evidentemente, a differenza dei rigidi ordini impartiti a noi bersaglieri, ne aveva altri più morbidi: si chiudeva spesso un occhio, infatti, consentendo a molti cittadini di entrare nell’area contaminata, con quanti rischi per la loro salute è facilmente immaginabile.
Un giorno si presentò alla postazione un pittoresco personaggio sui sessanta anni, con un sorriso smagliante e una larvata somiglianza col popolare comico Gino Bramieri, in compagnia di un’altra persona più giovane. Con un buon italiano e il tipico accento statunitense chiese di effettuare un sopralluogo nella zona maggiormente contaminata, esibendo un lasciapassare a doppia firma. Appurato che fosse tutto in regola, gli fornii il kit protettivo da indossare prima dell’accesso. Il nome, al momento, non mi disse nulla e sparì subito dalla memoria: l’importante era verificare che la foto sui documenti corrispondesse alla persona che si presentava al posto di blocco e che il lasciapassare fosse autentico. Quasi un anno dopo, la casa editrice Garzanti pubblicò un saggio del biologo statunitense Barry Commoner, “Il cerchio da chiudere”, uscito negli USA nel 1971, nel quale venivano compiutamente affrontate le problematiche ecologiche. Il saggio ebbe vasta eco e mi precipitai ad acquistarlo, essendo nel pieno dell’impegno ambientalista.
Nella versione italiana l’autore aveva aggiunto una prefazione interamente dedicata al disastro di Seveso, sviscerato in tutte le sue controverse dinamiche. Si può ben immaginare la sorpresa, pertanto, quando lessi il seguente paragrafo: “Ecco quali furono le mie impressioni durante un sopralluogo nella Zona A due mesi dopo la sciagura. La prima immagine è un blocco stradale, con i cavalli di frisia e il filo spinato che circonda la Zona A, quasi fosse un campo trincerato di una guerra di altri tempi. Due giovani soldati sbucano dalla garitta che li protegge dalla pioggia battente: indossano la tuta mimetica e imbracciano armi automatiche. Il nostro lasciapassare di ingresso nella Zona, controfirmato dall’ufficiale sanitario regionale e dal sindaco di Seveso dopo mille traversie burocratiche, viene solennemente controllato. Noi, non prima di aver indossato tute protettive, anfibi, guantoni, maschere antigas e grossi occhiali, riceviamo il permesso di superare il blocco“. Il caso aveva voluto che un anno prima mi fossi imbattuto in uno dei più grandi scienziati al mondo, docente di fisiologia vegetale presso l’università di Washington, fondatore del Centro per la biologia dei sistemi naturali e, soprattutto, autorevole avversatore delle centrali nucleari.
La tragica esperienza di Seveso, al di là del clamore mediatico, non ha condizionato più di tanto le coscienze delle persone. Le industrie continuano ad avvelenare l’ambiente e le masse amorfe continuano a pagare il fio della loro “insostenibile leggerezza dell’essere”, che le rende incapaci di rinunciare ai cibi spazzatura, all’uso smodato dei sistemi di riscaldamento e refrigerazione domiciliare, a restare ore e ore nel traffico mentre le velenose particelle emesse dai gas di scarico contaminano l’aria. Il potere politico, attento solo ad assecondare gli umori degli elettori, trova molto più utile e attraente allearsi con i potentati economici, ancorché nefasti, invece di contrastarli. Il mondo muore, pazienza. È un problema dei posteri, ma chi se ne frega dei posteri, sosteneva Luciano de Crescenzo in un celebre film, dissertando sugli stoici e sugli epicurei e manifestando netta preferenza per questi ultimi, sulla scorta di quanto contemplato in un celebre motto di Orazio: “Carpe diem, quam minimum credula postero”.
Nel 1986, il disastro nucleare di Černobyl’, anch’esso caratterizzato dai pressanti tentativi iniziali di minimizzazione, sancì in modo ancora più marcato come l’uomo fosse completamente slegato dall’ambiente che lo ospita e non ne avesse ancora compreso i limiti.
SFORZIAMOCI DI NON PERIRE
“Viviamo un momento storico caratterizzato da un’enorme potenza tecnologica e da un’estrema miseria umana. La potenza della tecnologia si autoevidenzia in modo penoso nel numero di megawatt delle centrali elettriche e nei megatoni delle bombe nucleari. La miseria dell’uomo si evidenzia nel pauroso numero di persone che già esistono e che presto nasceranno, nel deterioramento del loro habitat, la terra, e nella tragica epidemia, su scala planetaria, della fame e della povertà. La frattura tra il potere brutale e l’indigenza umana continua ad allargarsi, dal momento che il potere si ingrassa grazie a quella stessa tecnologia sbagliata che acuisce l’indigenza. Ovunque, nel mondo, è evidente il fallimento di partenza del tentativo di usare la competenza, la ricchezza, il potere a disposizione dell’uomo per raggiungere il massimo di beneficio per gli esseri umani. La crisi ambientale è un esempio macroscopico di questo fallimento: l’essere arrivati alla crisi è dovuto al fatto che i mezzi da noi usati per ricavare ricchezza dall’ecosfera sono distruttivi dell’ecosfera stessa.
Il sistema attuale di produzione è autodistruttivo; l’andamento attuale della società umana sembra avere come fine il suicidio. La crisi ambientale è il segno sinistro di un inganno insidioso, nascosto nella tanto decantata produttività e nella ricchezza della moderna società, basata sulla tecnologia. Questa ricchezza è stata guadagnata con un rapido sfruttamento del sistema ambientale, ancorato sul medio termine, ma ha contratto ciecamente un crescente debito con la natura, caratterizzato dalla distruzione ambientale nei paesi sviluppati e dalla pressione demografica in quelli in via di sviluppo. Un debito vasto e diffuso che, se non pagato, entro la prossima generazione potrà cancellare la maggior parte della ricchezza che ci ha procurato. In effetti i registri contabili della società moderna sono in drastico passivo, tanto che, per lo più inavvertitamente, una grossa frode è stata perpetrata a danno della popolazione mondiale. La situazione di rapido peggioramento dell’inquinamento ambientale ci ammonisce che la bolla sta per scoppiare, che la richiesta di pagamento del debito globale può sorprendere il mondo in bancarotta”.
Le virgolette fanno chiaramente intendere che il succitato testo non è mio. Mi accingo senz’altro a rivelarne l’autore; prima, però, sarebbe opportuno rileggerlo soffermandosi su alcuni termini, verbi, concetti: “autoevidenzia”, “è evidente il fallimento”, “sistema attuale”, “prossima generazione”, “la bolla sta per scoppiare”. La rilettura serve a far affiorare in modo più incisivo ciò che la mente ha elaborato a livello inconscio: l’autore ha esposto alcuni aspetti della crisi ambientale, paventando i rischi futuri in virtù del “rapido peggioramento dell’inquinamento”. Il costrutto semantico, i verbi al presente e concetti che, sostanzialmente, ribadiscono cose ben note, quotidianamente vissute o subite, portano naturalmente alla succitata conclusione. Ora ciascuno si aspetta il nome dell’autore, magari pensando che possa trattarsi di qualche scienziato, il che non è sbagliato, dal momento che si tratta proprio di uno scienziato: l’unica cosa che non vi aspettate è che quanto da lui asserito non evidenzia l’attuale fallimento, non si riferisce né a una bolla che sta per scoppiare né alla prossima generazione, intesa come quella che seguirà la nostra. L’autore, infatti, è proprio quel Barry Commoner innanzi citato e il brano è tratto dal testo, anch’esso citato, scritto nel 1971! 1971, ossia poco meno di mezzo secolo fa! La generazione futura cui faceva riferimento è quella nata più o meno tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, una cui buona fetta ha già in mano le sorti del Pianeta.
Ecco perché in questo articolo l’ecologia è assimilata alla scienza delle parole al vento. Anche io da circa mezzo secolo ripeto sempre le stesse cose. Perché? Perché l’umanità, soprattutto a sud dell’Equatore, da illo tempore recita una farsa: a parole ambisce al cambiamento; nei fatti lo rifiuta. E intanto si suicida.
Quante parole dovremo ancora affidare al vento, prima che fungano da schiaffi capaci di scuotere le coscienze?
Lino Lavorgna
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