Nessun genere attira così tanta attenzione e curiosità negli Stati Uniti quanto i cosiddetti film inchiesta, capaci di generare una commistione di reale e finzione dalla densità quasi perfetta.
Ne sono stati esempio lampante prodotti come Il caso Spotlight o Truth, che hanno rappresentato emblematicamente un nuovo approccio al genere, più improntato sulle sfaccettature socio politiche di alcuni eventi della cronaca moderna americana.
La ragazza di Stillwater diretto da Tom McCarthy unisce il tentativo di ricostruire una travagliata vicenda giudiziaria alla volontà di raccontare il rapporto tra padre e figlia, l’umanità che si cela dietro situazioni molto difficili e delicate.
E’ la storia di Allison e di suo padre Bill, la prima condannata alla reclusione per l’omicidio di una sua coetanea a Marsiglia, il secondo alla ricerca disperata di un modo per poter accorciare la pena della figlia.
Liberamente ispirata alle vicende che coinvolsero Amanda Knox, La ragazza di Stillwater scava a fondo nei rapporti umani, soprattutto in quello che si va a creare tra Bill e una gentile famiglia francese che decide di offrigli sostegno per oltrepassare le barriere linguistiche e sociali, aiutandolo ad integrarsi e a trovare un lavoro.
La contaminazione di generi e momenti, risulta essere il vero punto di forza di questo film, che inizia in modo forse poco esaltante e già visto troppo, per poi cambiare atmosfera e focalizzare su aspetti più initmi, sul senso più profondo di paternità, concetto molto spesso abusato nel mondo del cinema.
Molto centrato è il personaggio di Bill in questo senso, che dona spessore a tante sequenze centrali e finali forse un po’ troppo fuori dalle righe e poco credibili. C’è da dire che un attore come Matt Damon è capace di rendere intense scene molto superficiali, in virtù della sua rara versatilità e della cura quasi maniacale grazie alla quale riesce a calarsi in determinati stati d’animo.
L’umanità del suo personaggio e della famiglia francese all’interno della quale si muove gran parte della storia, viene espressa in massimo grado e con grande delicatezza da McCarthy che in questo senso di riconferma regista di spessore e profonda sensibilità.
Purtroppo il film ad una visione complessiva resta nel limbo dell’incerto non riuscendo a centrare con coerenza l’obiettivo di ricostruire qualcosa di credibile dall’inizio alla fine. Soprattutto nella sezione finale si sente uno scarto molto importante a livello di scrittura, che finisce per non far collimare alcuni punti esposti all’inizio. Un’opera purtroppo vittima della propria discontinuità.
Giada Farrace
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