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Anamnesi di un popolo complicato

PROLOGO
Le distonie sociali di qualsiasi popolo e le qualità intrinseche manifestate da una parte o dalla maggioranza dei cittadini, se analizzate nel contesto temporale in cui si manifestano, possono solo caratterizzarsi come “cronaca”. Per comprenderne le cause, invece, conferendo all’analisi una valenza sociologica, occorre necessariamente partire da lontano, proprio come si fa in qualsiasi ospedale con un paziente: gli si chiede un po’ di tutto, a partire dalla nascita. Non solo: gli si chiedono anche notizie sui suoi familiari. L’insieme dei dati, comprensivi degli esami effettuati al momento, consente di definire la natura della malattia e stabilire una opportuna cura. Gli italiani di oggi, nel bene e nel male, portano nel  DNA il retaggio ancestrale di quelli di ieri, solo in parte alterato dai condizionamenti ambientali, che perdono consistente efficacia, tuttavia, quando le tensioni sono molto acute e lasciano affiorare la vera essenza di ciascuno o, per meglio dire, “la sua natura”. Un viaggio nel tempo, pertanto,  sia pure con pochi esempi presi a campione tra le migliaia disponibili, si rende necessario. Apparentemente gli esempi potrebbero apparire fuori contesto, ma così non è: tutto ciò che incarnano è emblematico di una realtà che presenta impressionanti analogie in ogni epoca storica, come intuito da Vico, il cui pensiero sui corsi e ricorsi storici, tra l’altro, è frequentemente distorto e frainteso, non intendendo egli certo asserire che la storia si ripeta ma che l’uomo è sempre uguale a sé stesso, a prescindere dagli eventi che lo vedono protagonista o spettatore, secolo dopo secolo. In Italia, questo presupposto, che ovviamente riguarda il mondo intero, si può riassumere con una semplice espressione coniata da Guicciardini cinque secoli orsono: “Franza o Spagna purché se magna”. 

UN PO’ DI STORIA

133-121 A.C. Tiberio Sempronio Gracco, talentuoso e brillante aristocratico, nipote di Scipione l’Africano, aveva ben compreso i malanni che affliggevano l’Italia: l’estensione dei latifondi  e il massiccio utilizzo degli schiavi, penalizzante per i contadini, i quali non trovavano né lavoro né terre da coltivare; la riduzione delle coltivazioni a favore dei pascoli; l’abbandono delle campagne da parte dei piccoli proprietari, impoveriti dai privilegi dell’aristocrazia e costretti a trasferirsi a Roma in cerca di fortuna. Siffatto processo, ingiusto nella sostanza per esclusiva colpa dei nobili, riduceva anche l’efficienza del fortissimo esercito romano, che reclutava i soldati proprio tra i contadini.

La riforma agraria promossa da Tiberio Gracco, protesa a stabilire un limite al possesso privato di agro pubblico, era “giusta e opportuna”. I “poteri forti”, però, che ovviamente pensavano solo ai fatti propri, si opposero, temendo di perdere parte dei latifondi e le clientele formate dai nullatenenti. Una legge  giusta, pertanto, fu applicata solo grazie a un forzatura del proponente, costretto a commettere un atto illecito: chiedere la decadenza del losco tribuno della plebe Marco Ottavio, prezzolato servo dei nobili, che si era opposto alla promulgazione (1). Tiberio, proprio come pochi romantici idealisti del tempo moderno, pensò anche ai poveracci, ai nullatenenti, a quelle persone vessate dalla vita e dalla protervia dei potenti. A Pergamo, in Asia minore, passò a miglior vita Attalo III, lasciando il suo regno in eredità ai romani. I nobili sarebbero stati ben lieti di fare incetta dell’immenso tesoro e dividerselo allegramente, né più né meno come accaduto tante volte nei secoli a venire e anche ai giorni nostri, in circostanze non certo di pari portata, ma sostanzialmente simili nei presupposti. Quel romanticone di Tiberio, però, pensò di utilizzare le ingenti somme ricevute in eredità per finanziare i poveri contadini e migliorare le loro infauste condizioni di vita. Si possono immaginare i mal di pancia provocati da questo antesignano di Robin Hood. Come sia andata a finire non vi è bisogno di scriverlo.  Sorte non diversa toccò al fratello Caio, dieci anni dopo, che pensò bene di anticipare gli assassini chiedendo a uno schiavo di ucciderlo. (Mi concedo una pausa per effettuare opportuni riti apotropaici a favore degli attuali Tiberio e Caio Gracco, affinché trovino la forza per resistere ai quotidiani attacchi e non deroghino di un passo dai loro propositi di ridurre la povertà, combattere il male ovunque si annidi e far recuperare al paese quella credibilità avvilita da troppi decenni di malgoverno).

101-44 A.C. Abbiamo tutti trascorso molte ore degli anni scolastici a tradurre interi brani del “De Bello Gallico”, idealizzando nelle nostre menti il grande condottiero che conquistò la Gallia, impropriamente immaginata come terra popolata da rozzi buzzurri meritevoli di essere schiavizzati da Roma. Nessun docente, infatti, ha mai spiegato agli alunni delle scuole medie e superiori che Cesare, indebitato fino al collo con l’Enrico Cuccia del tempo, Marco Licinio Crasso, che gli prestò 25 milioni di sesterzi al tempo della campagna di Spagna, andò in Gallia anche e soprattutto per acquisire potenza economica, pagare i debiti e contrastare i nemici interni. “Era braccato dai creditori come una lepre spelacchiata”, disse Crasso in Senato, alla vigilia della guerra civile. Cesare in Gallia condusse una campagna spietata, per la quale non è azzardato utilizzare il termine “genocidio”. Siccome il suo mandato consolare stava per scadere e per lui era molto importante la rielezione, chiese di essere rieletto console in absentia, senza abbandonare l’esercito: richiesta illegale, prima sostenuta da Pompeo e poi da quest’ultimo respinta, anche per le pressioni dei senatori, che del condottiero ne avevano le tasche piene. 

Luciano Canfora sarà anche un marxista ortodosso, ma in tema di conoscenza della storia antica gli si deve riconoscere l’autorevolezza che merita e certe sue asserzioni sono davvero illuminanti. Spiegando le cause della lotta tra Pompeo e Cesare, asserisce testualmente: “La base della lotta politica a Roma sono i soldi. Chi ha più quattrini fa campagna elettorale e compra il voto. In Gallia Cesare ha pensato anche alla propria personale ricchezza. La gestione di una provincia può essere anche disinvolta, però prima o poi si paga, perché ci sarà un processo promosso dai nemici a Roma. Ed è per questo che Cesare non poteva trovarsi come privato cittadino a Roma (senza la protezione dell’esercito, n.d.r.) per le elezioni dell’anno 49 a.C. Prima sarebbe dovuto passare per il Tribunale. Il Tribunale è l’altra faccia della politica romana, molto più importante dei comizi. Tutto si risolve, alla fine, sul terreno giudiziario”. Da qui l’attraversamento del Rubicone, con quel che ne seguì. Se nella spiegazione di Canfora non comparisse il nome “Cesare, sarebbe davvero molto difficile, per chiunque, comprendere che lo storico si riferisce ad eventi di duemila anni fa e non a quelli attuali.

274-337. Alla pari di Cesare, un altro personaggio che abbiamo imparato a venerare grazie a ciò che è scritto sui libri di storia è “Costantino”, non a caso detto “il Grande”. Di lui ci hanno sempre tessuto le lodi, magnificandone gesta e virtù. Anche il buon Dio, addirittura, sarebbe rimasto così incantato dalla sua fulgida figura di uomo eccelso, probo e retto, da tributargli adeguata protezione nella famosa battaglia di Ponte Milvio, contro il povero Massenzio. Ancora oggi, nelle scuole, si parla di “Costantino il Grande” e a nessun docente viene in mente di spiegare che nessun Dio disegna croci in cielo, stabilendo chi debba vincere una battaglia; che la sua ferocia nel distruggere le città che non gli aprivano le porte, quando partì dalla Gallia per contrapporsi a Massenzio, non è proprio un atteggiamento consono a qualcuno definito “grande”; che per mantenersi al potere, senza tanti scrupoli, fece uccidere l’antico rivale Licinio; il figlio primogenito Crispo; Liciniano, figlio della sorella Costanza e di Licinio; la moglie Fausta (sorella di Massenzio), ingiustamente sospettata di aver avuto una relazione con Crispo, figlio della prima moglie Minervina. Sarebbe un’offesa all’intelligenza dei lettori scrivere anche “perché” se ne esaltino le fasulle virtù, obnubilando i tratti reali del suo essere e pertanto mi fermo qui.

1494-1495. Carlo VIII, re di Francia, dopo aver sistemato le diatribe interne e i rapporti precedentemente non idilliaci con Inghilterra e regno d’Aragona, per non annoiarsi pensò bene di far valere il diritto ereditario sul regno di Napoli, in quanto nipote di Maria d’Angiò, la figlia di Luigi I, re di Napoli dal 1352 al 1362. Messosi alla testa di un esercito di ben trentamila uomini, entrò in Italia il 3 settembre 1494, da tutti festosamente accolto. Ad Asti alloggiò nel palazzo dei Solari e la figlia undicenne del padrone di casa ne restò così affascinata da scrivere, per lui, “Le lodi del matrimonio”. Fu ben accolto dal cardinale Giuliano della Rovere, il futuro papa Giulio II, anche se l’accoglienza più calorosa gli fu riservata da Ludovico il Moro e Beatrice D’Este, sostenuti nella diatriba con Gian Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona. Molti storici, sicuramente a giusta causa, sostengono che Gian Galeazzo sia stato avvelenato proprio in virtù della combutta tra Ludovico e Carlo VIII. Nella marcia trionfale in territorio italiano, senza mai sfoderare la spada, il re francese giunse nei pressi della fortezza di Sarzanello, limitandosi a chiedere al pavido Piero de’ Medici campo libero per Firenze. Si può immaginare la sua sorpresa, pertanto, quando, senza batter ciglio, si vide offrire le fortezze di Sarzana, Sarzanello e Pietrasanta; le città di Pisa e Livorno, oltre, naturalmente, il via libera per Firenze, dove accaddero quelle cose tipicamente “italiane” che risultano incomprensibili nel resto del mondo.

I fiorentini, indignati, cacciarono Piero de’ Medici per il servilismo nei confronti di Carlo VIII, al quale, però, subito dopo spalancarono loro stessi le porte della città, festeggiandolo con tutti gli onori e riconoscendogli il merito di averli liberati dalla dominazione medicea, cosa non vera dal momento che Carlo VIII non si era proprio posto il problema di interferire nelle beghe cittadine. A Roma regnava papa Alessandro VI, tristemente famoso per la sua condotta immorale. Girolamo Savonarola non perdeva occasione per sputare fuoco e fiamme contro di lui e siccome il re francese per andare a Napoli doveva attraversare lo Stato Pontificio, a Firenze fu d’uopo considerarlo anche un possibile riformatore della Chiesa, esposta alla vergogna per la condotta dello scellerato Borgia, indegnamente assurto al soglio pontificio grazie all’abilità nella corruzione dei cardinali. Carlo, però, molto più pragmaticamente, temeva che un eventuale contrasto con il papa lo avrebbe esposto alle ritorsioni delle potenze europee e si guardò bene dal soddisfare le richieste dei fiorentini e di Savonarola. Solo per una fortuita coincidenza riuscì comunque a entrare a Roma: Giulia Farnese, amante del papa e moglie del suo alleato Orsino Orsini, fu catturata insieme con la suocera, Adriana Mila, durante un viaggio da Bassanello verso Roma.  

Il re le usò come merce di scambio: le due donne furono liberate e l’esercito francese entrò a Roma, preoccupando non poco Alessandro VI, che tollerò un po’ di soprusi perpetrati dalle truppe, si mostrò compiacente e concesse subito il via libero verso Napoli, dove si verificarono altri eventi tipicamente italiani. Re Alfonso II, quando le truppe erano ancora ben lontane dalla città, cadde in profonda depressione, aggravata da incubi e cattivi presagi. Pensò bene, quindi, di scapparsene a Messina, lasciando il regno nelle mani del giovane ed inesperto figlio Ferdinando II (Ferrandino) che, a sua volta, con l’arrivo dei francesi, se ne scappò a Ischia, con buona pace degli apologeti, i quali, ancora oggi, ne esaltano la figura negando l’evidenza.  Manco a dirlo, re Carlo e i suoi soldati furono accolti a braccia aperte dai napoletani, sempre pronti a sorridere agli invasori di turno, nella vana speranza di migliorare le condizioni di vita. Alessandro VI, a questo punto, incominciò davvero a preoccuparsi e corse ai ripari  chiamando a raccolta i principi dei vari stati. In un baleno fu composta una poderosa armata,  che a Fornovo sul Taro affrontò l’esercito francese in ritirata.

Trentacinquemila soldati italiani, ben armati e senza problemi di rifornimenti, fronteggiarono novemila francesi privi di ogni sostentamento e con armamento nemmeno lontanamente comparabile a quello avversario. Se i bookmakers fossero esistiti anche allora non avrebbero accettato puntate sulla vittoria degli italiani, essendo ben chiaro che i nemici, accerchiati, sarebbero stati sterminati in poche ore. Con somma sorpresa, invece, l’esercito francese riuscì ad aprirsi un varco, a far fuori ben quattromila italiani, perdendo solo mille uomini, e soprattutto a salvare la vita al re. In Francia, ovviamente, nelle scuole s’insegna che la battaglia fu vinta dai francesi. In Italia, però, si esalta l’amor patrio dei principi che risposero al sacro appello del papa contro l’invasore e la splendida vittoria ottenuta a Fornovo! Francesco II di Gonzaga, addirittura, commissionò  ad Andrea Mantegna un quadro commemorativo e il grande pittore non deluse le aspettative, realizzando una splendida pala d’altare, alta ben 280 centimetri, intitolata “La Madonna della Vittoria”, che fu collocata nella Chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Mantova. Nel periodo napoleonico fu oggetto delle famose espoliazioni, che riguardarono oltre cinquecento opere d’arte. Ora fa bella mostra di sé al Louvre, mettendo sempre in seria difficoltà le guide che ne devono spiegare la genesi.

AHI, SERVA ITALIA, DI DOLORE OSTELLO.

Fermiamoci qui, con gli esempi. Già nel 1300, del resto, Dante aveva compreso che l’Italia è un luogo di dolore, assimilabile sia a una nave senza guida in un mare tempestoso sia a una donna non più rispettabile, divenuta prostituta. I secoli successivi non hanno fatto altro che confermare, costantemente, quanto descritto dal poeta nel VI canto del Purgatorio, confinando nelle eccezioni il pur tanto di buono che, in tutti i campi, è stato partorito. Ben diciassette secoli prima di lui, però, Aristofane, nella commedia “I cavalieri”, parlò di un salsicciaio immorale, cinico e ignorante, il quale, con beceri discorsi di bassa demagogia, riuscì a primeggiare in una disputa che prevedeva la conquista di una posizione di potere. Quanti salsicciai abbiamo conosciuto, dal dopoguerra ad oggi? Soprattutto, quanti sono stati gli italiani che si sono fatti abbagliare dal salsicciaio di turno?

Per meglio entrare nei complessi meandri dell’Italia di oggi, tuttavia, molto più pertinente risulta la fiaba di Esopo sullo scorpione e la rana, magistralmente sfruttata dall’ineffabile Marco Travaglio nell’editoriale del 5 giugno scorso. Risparmio la fiaba, considerato l’alto livello culturale dei lettori di questo magazine. Sono trascorsi 2600 anni, sostiene Travaglio, ma essa descrive alla perfezione la realtà attuale. Il premier Giuseppe Conte rappresenta la maggioranza degli italiani che vorrebbero arrivare incolumi e sereni sull’altra sponda del fiume, salvaguardando il governo della speranza e del cambiamento nato nel 2018 e sublimato dal voto del 26 maggio 2019 con consensi addirittura superiori, sia pure con equilibri rovesciati. Durante la traversata, però, può accadere di tutto e Conte, per non correre il rischio di essere punto, ha chiesto ai due vice-ministri di consegnargli i pungiglioni, inducendoli ad interrogarsi se siano ancora scorpioni, come ai tempi delle origini dei rispettivi partiti, o siano riusciti a trasformarsi in rane. I pungiglioni sono stati consegnati e si va avanti, sia pure tra mille problemi e il continuo fuoco ad alzo zero di chi rema contro, perché l’Italia di oggi più che al porto delle nebbie assomiglia al Titanic prima di affondare. Il caos è spaventoso e in tanti, per lo più quelli che occupano le cabine di terza classe, stanno annaspando tra i flutti in attesa di essere ripescati da qualche scialuppa.

Le multinazionali, cinicamente, licenziano e dislocano altrove la produzione, magari dopo aver ottenuto lauti incentivi statali a tutela dell’occupazione (non hanno fatto i conti con Gigino Di Maio, però, che al di là del sistematico dileggio mediatico dei tanti malpancisti, sta dimostrando di sapere il fatto suo); gli speculatori giocano sporco, come sempre; i vecchi partiti vomitano spudoratamente tonnellate di menzogne, anelando al tanto peggio tanto meglio, perché non vedono l’ora di tornare a depredare il paese. Di scialuppe per i meno fortunati, onestamente, se ne vedono poche in giro, anche se vi è tanta buona volontà in chi si sia assunta la responsabilità di tutelare quelli della terza classe. In queste situazioni, come scritto all’inizio, emergono ben evidenti i limiti e le qualità di ciascuno. Ogni giorno – ogni giorno! –  le Forze dell’ordine arrestano decine di politici, del centro destra e del centro sinistra, che proprio non ce la fanno a onorare il ruolo senza commettere gravi reati. Sono un esercito così numeroso che sorge spontaneo chiedersi se, prescindendo da coloro che vengono presi con le mani nella marmellata, anche gli altri non siano della stessa pasta. Domanda doverosa nel rispetto del politically correct, che vieta ogni forma di generalizzazione. Al di fuori delle regole imposte dalla deontologia professionale, tuttavia, la domanda si rivela puramente retorica: sfido a trovare un solo italiano, che non sia in qualche modo complice degli uni o degli altri,  disposto a credere che da quelle parti vi siano persone per bene.

La società “cosiddetta civile”, a sua volta, evidenzia un tasso di inciviltà e di arretratezza culturale che spaventa e atterrisce. I social media sono diventati una vera manna per analisti, sociologi, psicologi, consentendo, senza tanti sforzi, approfondite indagini sugli umori e i comportamenti di milioni di cittadini, con risultati non certo esaltanti. La scuola ha fallito il suo ruolo primario, che è quello di educare i giovani ad assumersi delle responsabilità, fornendo loro adeguata formazione. I genitori non sono in grado di educare i figli e sciaguratamente li assecondano viziandoli in modo assurdo, fino ad accompagnarli, per esempio, ad ascoltare rifiuti umani che si spacciano per cantanti, purtroppo in qualche circostanza pagando con la vita la propria inadeguatezza al ruolo (2). Invece di ringraziare i docenti che cercano di “correggere” comportamenti scorretti degli alunni più impertinenti, li braccano e li picchiano, con quali conseguenze sulla psiche dei figli è facilmente immaginabile. Si dovrebbe davvero istituire una scuola di formazione genitoriale. Le nuove generazioni crescono nell’incertezza, che genera disperazione, soffocata dal massiccio uso di droghe e alcool. Stiamo lasciando crescere degli autentici zombi, che un domani si scanneranno vicendevolmente, proprio come si vede in tanti film apocalittici. Siamo proprio messi male, come non mai. Riusciranno i rari nantes in gurgite vasto a raddrizzare la barca che affonda, a recuperare dai flutti quante più persone possibile, a mettere fuori gioco i seminatori di morte e inculcare valori sani soprattutto alle nuove generazioni?  La domanda, per ora, resta sospesa e senza risposta.

CRISI MAGISTRATURA

Primo incipit

“Che val perché ti racconciasse il freno, Iustiniano, se la sella è vota? Sanz’esso fora la vergogna meno”. 

Secondo incipit

Magistrati uccisi dalla mafia e dai terroristi, dagli anni sessanta del secolo scorso: Agostino Pianta, Pietro Scaglione, Francesco Ferlaino, Francesco Coco, Vittorio Occorsio, Fedele Calvosa, Riccardo Palma, Girolamo Tartaglione, Mario Amato, Emilio Alessandrini, Cesare Terranova, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Guido Galli, Bruno Caccia, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Gaetano Costa, Alberto Giacomelli, Rocco Chinnici, Antonio Saetta, Antonio Scopelliti, Rosario Livatino, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, Luigi Daga, Paolo Adinolfi.

Terzo incipit

“Io credo che gran parte di questo sentimento di astio, che poi ha portato Giovanni Falcone in tanti momenti della sua vita all’isolamento, sia dovuto a questo sentimento che è molto diffuso nell’uomo e quindi anche nei magistrati, cioè l’invidia”. (Dichiarazione di Mario Almerighi nel programma “La storia siamo noi – Giovanni Falcone, un giudice italiano”, reperibile in un mio vecchio articolo del 2012: https://galvanor.wordpress.com/2012/09/12/488/)

Quarto incipit

Un ex giudice del Consiglio di stato, destituito, come facilmente reperibile nelle cronache on line e in tanti servizi televisivi,  obbligava le allieve dei suoi corsi di formazione a indossare tacchi a spillo, minigonne, a lasciare i fidanzati. Con alcune di loro ha avuto anche rapporti sessuali. Quando si parla di magistrati e magistratura occorre andare con i piedi di piombo, soprattutto se non si hanno le spalle coperte. Molto meglio affidarsi, pertanto, a fatti inconfutabili, limitandosi a poche opinioni strettamente necessarie. Ciascuno, poi, potrà trarre le conclusioni che vuole.

Il sommo poeta, sempre nel VI canto del Purgatorio, si chiede a cosa sia servito il Codice giustinianeo, se nessuno rispetta le leggi. Vi sarebbe addirittura minore vergogna se le leggi non fossero mai state emanate. Il mancato rispetto delle leggi è storia vecchia e i magistrati sono coloro chiamati, da sempre, a punire chi le infranga, secondo le norme stabilite dal potere politico che, quando è composto da soggetti infami, ne promulga alcune per consentire di commettere reati senza correre gravi rischi. I magistrati, strutturalmente, sono soggetti ben diversi dai politici, perché la loro vocazione “iniziatica” è protesa a trovare appagamento nell’operare al servizio del bene. Quando il terremoto è troppo forte, tuttavia, anche le strutture antisismiche traballano. I tanti magistrati assassinati da mafia e terrorismo costituivano una sorta di “nazionale della magistratura”. Erano uomini davvero speciali, senza ombre, che brillavano per senso del dovere, serietà professionale, alta cultura.

In questa squadra di eccellenze ve n’erano due, poi,  capaci di elevarsi ancor più, sconfinando in qualcosa che trascendeva i limiti del possibile: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli splendidi magistrati Guarnotta e Di Lello hanno evidenziato siffatta sublimazione del loro “essere” con grande onestà intellettuale: “Noi eravamo una squadra nella quale sapevamo che c’erano dei fuoriclasse, come Maradona, e dei portatori d’acqua”. (Leonardo Guarnotta). “Emergeva molto, ma molto prepotentemente, la personalità dei due Giudici Istruttori, Falcone e Borsellino. Avevano insieme delle qualità che noi non avevamo: grande intelligenza, grandissima memoria, grande capacità di lavoro. Sarebbe stato sciocco, da parte nostra, mettere in dubbio questa gerarchia di fatto, perché forse, poi, mettendola in dubbio, potevamo essere sfidati a sostituirli e avremmo fallito miseramente”. (Giuseppe Di Lello;  vedi link nel terzo incipit).

È stato un duro colpo, per la magistratura e per l’Italia tutta, perdere tanti magistrati eccellenti e questo è un dato di fatto inoppugnabile: l’assenza dei fuoriclasse riduce la qualità di qualsiasi squadra; la loro presenza aiuta gli altri a crescere e a diventare più bravi. I fuoriclasse, come dignitosamente asserito da Almerighi, dovevano fronteggiare due nemici: fuorilegge palesi e poteri occulti all’interno dello Stato, forse ancora più pericolosi. Ogni anno, per commemorare   Giovanni Falcone, in tanti corrono a Palermo. Se uno studente straniero, tuttavia, decidesse di dedicargli la propria tesi di laurea, effettuando delle ricerche si troverebbe in seria difficoltà per comprendere tutto l’amore “postumo”. La carriera di Giovanni Falcone, infatti, fu funestata da una sequela di brucianti sconfitte ed è significativo, sotto questo profilo, quanto asserito da Ilda Boccassini nel corso di un’intervista effettuata da Giuseppe D’Avanzo e pubblicata su “la Repubblica” il 21 maggio 2002: “Dal 1971 ad oggi, se non sbaglio, sono stati uccisi in Italia ventiquattro magistrati. Mi chiedo perché soltanto per Giovanni Falcone, anno dopo anno, tanti onori, celebrazioni, accensioni polemiche. Credo che la ragione vada rintracciata nell’ipocrisia del Paese, nel senso di colpa della magistratura, nella cattiva coscienza della politica.

Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento. È soltanto il più macroscopico paradosso della vita e della morte di Giovanni Falcone: la sua breve esistenza, come oggi la sua memoria, è stata sempre schiacciata dal paradosso, a ben vedere. Ce ne sono di clamorosi… Non c’è stato uomo in Italia che ha accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. È stato sempre “trombatissimo”. Bocciato come consigliere istruttore. Bocciato come procuratore di Palermo. Bocciato come candidato al Csm, e sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso. Dieci anni fa, per dar conto delle sue sconfitte, Mario Pirani dovette ricorrere a un personaggio letterario, l’Aureliano Buendìa di Cent’anni di solitudine che dette trentadue battaglie e le perdette tutte: ancora oggi, non c’è similitudine migliore. Eppure, nonostante le ripetute “trombature”, ogni anno si celebra l’esistenza di Giovanni come fosse stata premiata da pubblici riconoscimenti o apprezzata nella sua eccellenza. Un altro paradosso. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia è stata tradita con più determinazione e malignità. Eppure le cattedrali e i convegni, anno dopo anno, sono sempre affollati di “amici” che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattinai o i burattini di qualche indegna campagna di calunnie e insinuazioni che lo ha colpito”.

Anche Borsellino fu “abbandonato” alla sua triste sorte e ancora oggi, quando si vedono i filmati dell’epoca, che evidenziano la mancata adeguata protezione della strada dove abitava la madre, e si legge tutto ciò che è emerso nel corso degli anni, si prova solo un senso di profondo sgomento.

Per quanto riguarda la vicenda “pruriginosa” dell’ex consigliere di Stato con propensioni che non è nemmeno il caso di citare, il dato importante è la disponibilità dimostrata da troppe allieve nell’accettare le sue scandalose regole. Queste donne un domani saranno magistrati. Alcune già lo sono. Vi è qualcuno disposto a fidarsi della loro capacità di giudizio e della loro capacità a resistere ad “ulteriori tentazioni” durante i processi?

L’attuale crisi della magistratura è senz’altro figlia dei tempi attuali per quanto concerne lo scontro feroce per le poltrone nel palazzo dei Marescialli, ma ha radici antiche relativamente a taluni comportamenti, in particolare quelli che, essendo indegni di qualsiasi essere umano, risultano oltremodo insopportabili se perpetrati da un magistrato. Qualche corrotto è sempre esistito, perché in ogni grande famiglia vi possono essere delle pecore zoppe. Ricordiamo, tutti, per esempio, “l’ammazzasentenze” Corrado Carnevale, inquisito e… assolto.  Poche rondini non fanno mai primavera. Se le rondini abbondano in cielo, però, vuol dire che in primavera siamo e se la metafora si riferisce a una “primavera” sgradevole, qualche correttivo s’impone.

Quando fondai “Europa Nazione” (www.europanazione.eu), nel 2013, inserii nel programma una bozza di riforma costituzionale. Per quanto concerne la giustizia gli elementi essenziali riguardano una ridefinizione delle competenze del relativo ministero, in modo che non “sia” e non “appaia” un organo gerarchicamente superiore al CSM. Vanno rimodulati l’articolo 107 della costituzione e l’articolo 14 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, in modo che sia revocata al  Ministro della giustizia la titolarità dell’azione disciplinare, che deve restare di esclusiva pertinenza del procuratore generale presso la Corte di cassazione. Affinché la legge sia davvero uguale per tutti occorre ridurre i tempi dei processi e abolire la prescrizione dei reati. Tre gradi di giudizio sono davvero troppi e le sentenze devono diventare esecutive dopo il processo di appello, riservando alla Corte di cassazione l’eventuale esame del ricorso anche durante la detenzione del condannato. Vanno riconsiderati, inoltre, tutti gli aspetti cosiddetti “etici”, sublimati da un esagerato formalismo dogmatico, che rappresenta una manna per i delinquenti  e una grave offesa per le vittime.

La riforma del codice penale è “urgentissima”, affinché si sancisca un sensibile inasprimento delle pene che, associato alla riduzione dei gradi di giudizio, costituirebbe un valido deterrente per chi abbia una propensione delinquenziale. Per una effettiva attuazione della “separazione dei poteri”, inoltre, il CSM deve essere indipendente in toto dalla politica e quindi va abolita la nomina parlamentare di un terzo dei membri. Tutto ciò, insieme con altri non meno importanti provvedimenti qui non indicati per amor di sintesi, ma che ricalcano i principi ispiratori di quelli descritti, consentirebbe davvero di togliere molte deleterie incrostazioni nei palazzi del potere, migliorando la vita dei cittadini e, soprattutto, riducendo sensibilmente quel frustrante senso di impotenza che nasce quando si percepisca che “i rapporti di forze” hanno il sopravvento sulla “giustizia”.

CONCLUSIONI

Nulla di buono sarà mai possibile, tuttavia, se non saremo noi cittadini a compiere il primo passo. Affinché cambino le regole che ci angustiano occorre che il primo cambiamento avvenga in noi, perché,  come traspare chiaramente dalla  storia patria, siamo noi i primi responsabili delle nostre sventure, magari vigliaccamente rifugiandoci dietro il comodo alibi delle colpe altrui. Ettore andò ad affrontare  Achille ben consapevole che non sarebbe sopravvissuto. Salutando i genitori che tentavano di dissuaderlo, disse loro:  “Ohimè, se mi ritiro dentro la porta e il muro, Polidàmante per primo mi coprirà d’infamia […] Ora che ho rovinato l’esercito col mio folle errore, ho vergogna dei Teucri e delle Troiane lunghi pepli, non abbia a dire qualcuno più vile di me: “Ettore ha rovinato l’esercito, fidando nelle sue forze”. Ah sì, così diranno. E allora per me è molto meglio o non tornare prima d’aver ucciso Achille o perire davanti alla rocca, di sua mano, con gloria”.

Qui siamo al cospetto di qualcosa che trascende gli umani limiti: Ettore si sacrifica per espiare l’errore tattico commesso quando impegnò le truppe nella battaglia presso le navi, nonostante il parere contrario del saggio Polidàmante; anche in un diverso contesto, tuttavia, avrebbe comunque affrontato Achille, senza alcuna speranza di sconfiggerlo. Con riferimento a un’epoca a noi molto più vicina, è appena il caso di ricordare che, Paolo Borsellino, quando si rese conto che la sua ora stava per suonare, lungi dal “fuggire”, cosa che nessuno avrebbe potuto contestargli, incominciò a trattare con crescente durezza i figli, ritenendo, ovviamente invano, di rendere loro meno doloroso il distacco. Quando l’amico Falcone era ancora in vita, i due scherzavano spesso su ciò che sarebbe potuto accadere, parlando senza paura di due cadaveri che camminavano. Non si può chiedere a nessuno di raggiungere la statura etico-morale di Falcone e Borsellino, ma tutti sono tenuti a capire la differenza siderale che separa gli “uomini” dai “quaquaraquà” e a smetterla di predicare bene e razzolare male, dando sempre la colpa agli altri. Ciascuno si guardi allo specchio e si faccia un serio esame di coscienza circa il proprio modo di pensare e di agire e poi  si regoli di conseguenza, magari dando una mano a chi seriamente lotti per cambiare le cose, invece di “sopravvivere” indecorosamente, elemosinando favori e raccomandazioni. Combattere a viso aperto comporta qualche rischio? Questo è sicuro! Parola di uno che lo fa da oltre mezzo secolo. Ma se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui. E avrà solo vissuto invano, da miserabile accattone.

  • Notoriamente si diche che Bene e male sono due facce della stessa medaglia. In realtà sono collocati alle punte estreme di un asse con pari zone di grigio degradanti verso il centro, che si (con)fondono senza distinguersi quando s’incontrano. Sulla necessità, a volte, di trasgredire le leggi a fin di bene, esiste una corposa letteratura, la più significativa delle quali è l’opera di Tolkien “Il Signore degli anelli”. Nel romanzo “Prigioniero del Sogno”, scritto dall’autore di questo articolo, il confronto tra Bene e male viene rappresentato in una luce ancora più estrema e controversa: un autorevole rappresentante dello Stato commette un grave reato per compiere il suo dovere, che consisteva nel catturare qualcuno che “agiva al di fuori delle leggi”. Lo cattura, provando grande disagio esistenziale, non solo per l’azione delittuosa  commessa: l’uomo, infatti, usava le sue risorse per combattere il male, risolvendo quindi grossi problemi sociali che, però, essendo di pertinenza altrui, lo ponevano in una posizione di “fuorilegge”. 
  • Nella notte tra il sette e l’otto dicembre 2018, presso una discoteca di Corinaldo, morirono sei persone mentre attendevano di assistere a un concerto demenziale. Proprio il protagonista di quella serata è sotto indagine per istigazione all’uso di sostanze stupefacenti. Tra le vittime vi è la mamma di una bimba di soli undici anni, che non fu capace di opporsi alle insistenze della figlia, “violentata” nell’animo dalla forte capacità attrattiva esercitata da testi inneggianti al sesso libero tra adolescenti, alle droghe e al disfacimento dell’essere.         

Lino Lavorgna

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