PREMESSA
Caserta, primavera 1971.
Papà Lorenzo nota che sulla mia scrivania vi sono molti libri, riviste, giornali, due volumi delle enciclopedie “UTET” e “MOTTA” aperti alla voce Libia e tre volumi “dell’Enciclopedia del Ragazzo Italiano” (Edizioni Labor, 1943, ereditata dalla biblioteca materna, come la “Motta”) ancora chiusi.
“Che stai studiando?”
“Lunedì dobbiamo portare una ricerca sulla Libia e sulle recenti espulsioni degli italiani”.
“Ah, capisco. Ma penso che questo materiale non ti basti. Mi sa che dobbiamo fare un salto a casa (si riferiva alla casa avita, in provincia di Benevento) dove ho qualcosa che potrebbe esserti utile. E poi ti racconto io un po’ di storie”.
La casa avita dista una quarantina di chilometri da Caserta e così, in men che non si dica, ci mettemmo in auto. Ivi giunti aprì un vecchio baule e tirò fuori cimeli di cui ignoravo l’esistenza, tra i quali: un volume degli annali dell’Africa italiana, alcuni numeri della rivista “Africa italiana” e alcuni fascicoli dell’opera “Le cento città d’Italia illustrate”, una delle quali dedicata a Tripoli e Bengàsi.
Papà parlava spesso della sua esperienza bellica in Libia e i suoi racconti, cesellati da una voce calda e incantevole, facevano sognare. Il mal d’Africa, nel linguaggio comune, indica una sensazione di nostalgia che pervade coloro che l’abbiano visitata e poi avvertano il desiderio, forte e irrefrenabile, di tornarci. L’asserzione è corretta ma insufficiente a definire il concetto nella sua essenza più completa: anche oggi si può cadere preda del “mal d’Africa”, nonostante le tristi vicende degli ultimi anni abbiano stravolto, massicciamente, quella serena dimensione dell’essere riscontrabile nei viaggiatori ed esploratori del XIX e XX secolo, tipo Karen Blixen, Ryszard Kapuściński, John Reader, James Augustus Grant, Ugo Ferrandi, per intenderci. Il mal d’Africa contratto dai soldati italiani nelle varie guerre coloniali e dai tanti ex coloni, che in Africa restarono anche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, è tutta un’altra cosa perché trascende il semplice desiderio di ritornare a vedere un paese “straniero” del quale si fosse rimasti incantati. Per quelle persone, infatti, l’Africa non era un paese straniero.
Altri, in questo numero, parleranno dei problemi contingenti legati alle vicende attuali. Io vi parlerò della “mia Africa”, quella che porto nel cuore “per contagio”, grazie ai racconti di un Grande Uomo: Lorenzo Lavorgna, mio Padre. Il mio pensiero in merito alle attuali vicende, ancorché fuori da ogni contesto realizzabile (e per questa ragione non espresso) è la diretta conseguenza di quel “contagio”. So bene, altresì, che chiunque lo avesse subito in forma analoga, non potrebbe che pensare la stessa cosa.
C’ERA UNA VOLTA L’AFRICA ITALIANA
La Tripoli che accolse mio padre era molto diversa dalla vecchia Tarabulos e dall’antica Pea e, naturalmente, era molto diversa dalla convulsa metropoli odierna, accreditata di circa 1.300.000 abitanti, ai quali ne vanno aggiunti almeno altri 6-700mila che sfuggono a ogni possibile censimento. Negli anni quaranta del secolo scorso la cittadina ne contava poco più di 70mila e appariva “modernissima” grazie alle radicali trasformazioni urbanistiche intercorse dal 1911 e all’imponente Via Balbia, realizzata nel 1937, che passa proprio per il suo centro e unisce la Tunisia all’Egitto coprendo una distanza di oltre 1800 chilometri. La città si stende tutta in piano, tra il mare e l’oasi, ricca di moderne costruzioni, fantasiosamente realizzate da ingegneri e architetti che si sono sbizzarriti ad applicare tutti gli stili, creando zone piacevoli e armoniose. Le strade principali partono dal porto e s’irradiano verso il centro della città; il Lungomare dei Bastioni sfocia verso il Castello, “severa e maestosa sede del Governo”, oltre il quale ha inizio il meraviglioso Lungomare Conte Volpi, modernissima arteria che trasporta di colpo la memoria alle migliori riviere liguri e napoletane e sulla quale si affacciano il Teatro Municipale Miramare, la sede della Banca d’Italia, quella dell’Ufficio Studi e Propaganda del Governatorato e il Grand Hotel, superba costruzione in stile moresco. Proseguendo, il lungomare sfocia in un largo dove sorgono gli edifici delle Società di Navigazione e delle Agenzie di viaggi, per poi riprendere la sua ampiezza naturale fino a Piazza IV Novembre. Nel mezzo, lo stupendo Albergo Excelsior. La più movimentata arteria cittadina è la bellissima Via Vittorio Emanuele, che taglia la città dal castello al nuovo palazzo del Governatore, ricca di negozi, ristoranti, locali alla moda come “Le Venete” e il “Caffè Mazzocca”. Con la tipica enfasi del regime, nella rivista consegnatami da papà è scritto che, dal porto, un’altra strada conduce a Piazza Maggiore Brighenti, ove sorge il fabbricato dei Monopoli, e al Tempio votivo ai Caduti “posto con felicissima scelta sopra un’altura al cospetto del mare dal quale giunsero gli Eroi che nel Sacello dormono il glorioso sonno”.
Papà mi mostra le foto della città, sulla rivista, fornendo per ciascuna di esse descrizioni e aneddoti; lo stesso fa con Bengàsi, dove tra l’altro ha trascorso più tempo rispetto a Tripoli: la stazione centrale con le tipiche arcate, il circolo coloniale, il Largo della Regina col Palazzo Prosdocimo, il Grand Hotel Italia, gli edifici pubblici, la Via dei Calzolai, la Via dei Tintori, la Via degli Avorai.
Le differenze sostanziali fra Tripolitania e Cirenaica sono ben descritte. Nella costituzione etnica della popolazione tripolitana, l’elemento berbero, ancorché numericamente minore rispetto agli arabi, ha l’assoluta prevalenza in quanto rafforzato da una consistente presenza dei Cologhli, ossia i discendenti dei giannizzeri ottomani e delle donne indigene, la cui origine risale al tempo degli stati barbareschi formatisi durante il XVI secolo in tutta l’Africa del Nord, beneficiari di particolari privilegi durante la dominazione ottomana. Elementi importanti della massa arabo-berbera sono gli sceriffi (discendenti del Profeta o presunti tali) e i Marabutti, discendenti di qualche santone. La minoranza israelita deriva da quella già stabilitasi in Africa al tempo delle persecuzioni di Antioco, ai quali si aggiungono quelli giunti dalla Spagna in conseguenza delle persecuzioni subite tra il XVI e il XVII secolo, che colpirono anche i “mori”. La lingua parlata in Tripolitania è un arabo corrotto, detto arabo-tripolino, mentre è abbastanza diffuso il berbero. Gli israeliti si esprimono nella loro lingua. Dal punto di vista religioso è comune tra gli abitanti la “Credenza Islamica” (sic); gli arabi propriamente detti seguono il rito malechita, i pochi turchi quello hanafita, i berberi l’abadita. La confraternita senussita ha molti aderenti. Circa ventimila i cattolici battezzati. In Cirenaica, invece, la popolazione si divide in cinque categorie “d’ineguale importanza” (sic): “negri” (sic), ebrei, berberi, arabo-berberi, arabi. I ne(g)ri sono i discendenti degli antichi schiavi portati sul mercato di Bengàsi dalle carovane negriere che razziavano i villaggi del centro dell’Africa fino a pochi lustri or sono. Costituiscono un ventesimo dell’intera popolazione e sono quasi tutti concentrati a Bengàsi. Gli ebrei, che alla pari di quanto avvenne in Tripolitania si stabilirono in Cirenaica sin dal tempo di Antioco Epifano, crebbero sensibilmente di numero durante l’impero di Augusto e riuscirono a dominare il territorio per molto tempo, costringendo i romani a dure repressioni per la riconquista. È scritto testualmente: “La razza ebraica presenta notevoli campioni di purezza avendo come ovunque evitato con gran cura gli incroci specialmente in linea maschile. Le donne sono generalmente piacenti e fra gli uomini stessi si nota un che di dignitoso nel portamento che non è frequente rilevare in altre contrade dell’Africa”.
L’elemento berbero, totalmente assorbito dagli arabi, a differenza di quello tripolino, ha perduto con la lingua anche ogni concetto della propria origine e per trovare “gli ultimi esemplari puri di questa razza” (sic) occorre recarsi nell’oasi di Augila (350 km a sud di Bengasi, in pieno deserto, ndr).
Le tribù più numerose che appartengono alle due grandi categorie dei Saàdi e dei Marabtin sono le seguenti: el-Abeidàt, el-Dòrsa, el Mogàrba, el-Auaghìr, el-Brahasa, el-Orfa, el-Abid. Come in Tripolitania, ogni tribù o gruppo etnico si divide in sotto-tribù o in “cabile” (raggruppamenti di popoli islamizzati; ndr) aventi ciascuno un nome proprio e costituenti un vero nucleo omogeneo. Questi gruppi si dividono in “Ailet”, riunioni di più famiglie che hanno origine da un ceppo comune, a loro volta suddivise in “Bet”, riunioni di individui legati da vincoli di stretta parentela.
La lingua parlata in Cirenaica differisce dal dialetto arabo utilizzato in Tripolitania e nelle città quasi tutti parlano italiano. Dal punto di vista religioso la maggioranza della popolazione segue il rito musulmano malechita ed è abbastanza consistente anche la componente senussita.
LA CONOSCENZA FONTE PRIMARIA DI SAPIENZA
Perché ho scritto queste cose? Perché non vi è problema attuale, a qualsiasi latitudine, che non affondi le radici in tempi lontani o addirittura remoti. Solo la perfetta, completa e reale conoscenza di tutti gli intrecci, dei grovigli, delle complesse realtà sociali dipanatesi nel corso dei secoli, ci consentono (o per meglio dire: ci consentirebbero) di avere un quadro sufficientemente chiaro per assumere le giuste decisioni sulle varie problematiche. La storia dell’umanità, invece, in particolare negli ultimi due secoli, non è altro che un susseguirsi di eventi scaturiti dalla profonda “ignoranza” di coloro che li hanno determinati. Oggi tutti parlano dei problemi dell’immigrazione dall’Africa e dal Medio-Oriente, per lo più a vanvera, senza avere un minimo di conoscenza di ciò che realmente accada da quelle parti, presumendo di sapere tutto grazie ai media. Magari i più attenti riescono anche a mettere in ordine i fatti, cosa di per sé già complicata, ma senza un’adeguata conoscenza del passato, non potranno mai inquadrarli nella loro giusta ottica. Al di là delle cose scritte e delle tante non scritte solo perché non è possibile per ragioni di spazio, il mio papà, che era un attento osservatore, me ne ha spiegate tante altre che mantengo riservate per tre semplici ragioni: non voglio che siano strumentalizzate; non voglio che siano messe in discussione; soprattutto non voglio che si possa dubitare che mi siano state effettivamente riferite.
Sono le deduzioni di un uomo straordinario, che sapeva cogliere le sfumature dei dettagli e sapeva capire la natura umana come pochi. È grazie a lui se ho imparato a non fidarmi delle apparenze. Ed è grazie a lui se, sull’Africa, ho idee così chiare da poter giungere a conclusioni difficilmente condivisibili in modo razionale. Sono ben riferibili, invece, le tante cose che mi ha fatto scoprire con dati di fatto tangibili, anche se è complesso riportarle nella loro interezza. Nel mastodontico testo “Gli annali dell’Africa Italiana”, per esempio, (595 pagine ricche di documenti e foto, edito nel 1940) vi è un articolo di Riccardo Astuto intitolato: “Soluzione del problema dell’Africa”. La sua lettura è illuminante e forse sarebbe il caso di pubblicare il testo, integralmente, in un prossimo numero di “CONFINI”. In un articolo di settantotto anni fa vi sono risposte a problemi attuali, perché ne vengono scandagliate le cause recondite.
Senza alcun merito e solo perché il caso ha voluto farmi nascere da due persone meravigliose che si chiamano Lorenzo Lavorgna e Giuseppina Federico, ho avuto modo di perfezionare un percorso di conoscenza che mi ha spalancato le porte su scenari nebulosi, ovviamente non solo afferenti all’argomento di cui parlo in questo articolo, dandomi la possibilità di navigare in essi senza perdermi.
Alla luce di questa conoscenza ho maturato il convincimento che tutto ciò che oggi si stia facendo per fronteggiare l’esodo dalle zone martoriate dell’Africa sia sbagliato. È sbagliato, però, anche pensare di poter risolvere il problema “aiutandoli a casa loro”, perché ciò è impossibile. È sbagliato, soprattutto, ciò che si pensi della Libia e ciò che si faccia con i suoi governanti, o peggio, con altri soggetti.
L’unica alternativa, pertanto, è quella che mi suggerì il mio papà, tanti anni fa, quando dopo una bella lezione di storia discutemmo anche di Gheddafi che aveva cacciato via gli italiani. In quella circostanza previde, con straordinaria lucidità analitica, tutto quello che sarebbe successo dopo, mentre le lacrime gli roteavano negli occhi, pensando alla “sua bella Libia”, finita nelle mani di un tiranno. Non chiedetemi cosa disse. Non è ancora giunto il momento per certe verità e una verità che giunga prima che il tempo sia pronto ad accoglierla si trasforma solo in un ballon d’essai, destinato nel tempo a perdersi, come le famose lacrime nella pioggia.
Lino Lavorgna
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