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9 Novembre 1989: “Da quando? Da subito”

INCIPIT
“L’idolo comunista, che seminò ovunque sulla terra discordia sociale, ostilità e atrocità senza eguali, che diffuse il terrore nella comunità umana, è crollato. Crollato per sempre. E io sono qui per assicurarvelo: sulla nostra terra non gli permetteremo di risorgere! Il comunismo non ha un profilo umano; la libertà e il comunismo non sono compatibili”. (Boris Eltsin, giugno 1992: discorso pronunciato durante la seduta comune delle Camere del Congresso statunitense)

TUTTA COLPA DI ROOSEVELT

Nel numero 58 di CONFINI (ottobre 2017) è stata affrontata la tematica della storia, o quanto meno di buona parte di essa, come inevitabile conseguenza del “se”, in antitesi al famoso detto: “La storia non si fa con i ma e con i se”. (Pagina 40, articolo dedicato a Ernst Jünger). Uno degli esempi addotti ha stretta attinenza con le tematiche trattate in questo articolo. Il 15 agosto 1944, al fine di accerchiare le truppe tedesche nel Sud della Francia, duecentomila soldati, per lo più statunitensi, invasero la Provenza. L’esercito tedesco era già in rotta a seguito dello sbarco in Normandia e l’avanzata delle truppe alleate in Italia, dal Sud verso il Nord, proseguiva in moto tale da non consentire alcun dubbio sull’esito della guerra. Churchill aveva ben chiaro nella mente lo scenario bellico e riteneva inutile e dannosa l’operazione “Dragoon” che, a suo giudizio, si sarebbe tramutata in una perdita di tempo e di vite umane. L’occupazione delle regioni balcaniche e dei paesi dell’Est europeo, invece, avrebbe assicurato l’approvvigionamento del petrolio ivi prodotto e impedito la futura ingerenza russa. Roosevelt, però, si oppose fermamente. Perché? Churchill desiderava aggirare le difese tedesche della Linea Gotica partendo dalla Pianura Padana per arrivare a Vienna e ai Balcani attraverso Trieste e ciò avrebbe significato intensificare le azioni belliche sul territorio italiano, già duramente provato. Essendo impegnato nella campagna elettorale per il quarto mandato presidenziale, però, temeva di perdere i voti degli italo-americani. Quanto sia costata quella scellerata ed egoistica decisione, nei decenni a venire, in termini di vite umane e non solo, è a tutti noto. Cosa sarebbe successo “se” avesse dato ascolto a Churchill? Non si può dire con precisione, ovviamente, ma di certo non si sarebbe formato il Patto di Varsavia, la Germania non sarebbe stata divisa, la Jugoslavia non sarebbe finita nelle mani di Tito e, a catena, non sarebbero successe tante altre cose.

LA PROFEZIA DEL TIRANNO

Gennaio 1989, Berlino Est. Nell’aula del consiglio di stato, il presidente Erich Honecker pronuncia il suo atto di fede nei confronti del regime: “Il muro continuerà ad esistere tra cinquanta e anche cento anni, se le ragioni per cui è stato costruito non verranno rimosse”. Non si può prevedere l’imprevedibile, ovviamente.

QUELLA NOTTE BUIA

Tutto era iniziato il 13 agosto 1961. Durante la notte, in meno di cinque ore, Berlino venne spaccata in due. Un lungo reticolato di filo spinato circondò la parte occidentale, separandola al suo interno da quella orientale. Dal 1949 Berlino Ovest era controllata da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e formava un’enclave all’interno della Germania Est. Nei primi anni del dopoguerra la libera circolazione tra i due settori era ammessa, ma il continuo esodo di molti cittadini indusse il regime comunista ad adottare drastici rimedi per impedirlo. Già due giorni dopo la collocazione del filo spinato iniziò la costruzione del famigerato muro, che divise intere famiglie. I tentativi di fuga nella zona occidentale iniziarono subito, ma le guardie di frontiera avevano l’ordine di sparare e uccidere, senza riguardi. Anche alcuni soldati, tuttavia, pensarono di scappare e il primo, proprio il 15 agosto, fu un diciannovenne che non esitò ad abbandonare la famiglia pur di assaporare il profumo della libertà. (La storica foto – in alto – di Peter Leibing che ritrae il giovane soldato mentre salta sul filo spinato).

Il continuo lavaggio del cervello perpetrato durante gli anni della dittatura comunista, purtroppo, ebbe effetti deleteri per molti tedeschi non sufficientemente attrezzati, a livello culturale e caratteriale, per restare immuni dalla propaganda martellante, tipica di ogni dittatura, e tra costoro vi era anche la famiglia del giovane caporale Hans Conrad Schumann, che nella repubblica (pseudo)democratica fu considerato un disertore, mentre in Occidente rappresentò l’immagine della libertà e negli anni ottanta fu anche ricevuto dal presidente statunitense Ronald Reagan.

Dopo la caduta del muro tentò di ricongiungersi con i familiari, che però si rifiutarono di incontrarlo, “vergognandosi” di lui. Nel 1990, a soli cinquantasei anni, il dolore lancinante per la sua triste condizione, che covava nell’animo da troppo tempo, ebbe il sopravvento sulla voglia di vivere e lo indusse a impiccarsi a un albero non lontano da casa, in Baviera, dove viveva con la moglie e un figlio. La fuga nel 1961, immortalata da una fotografa, divenne ben presto una delle immagini simbolo della guerra fredda. Al numero 47 della Brunnenstraße vi è una toccante statua a lui dedicata, da considerare come punto di partenza per raggiungere il non lontano Memoriale, che ogni essere umano dovrebbe vedere almeno una volta, nella vita, insieme con gli innumerevoli altri “luoghi della memoria” disseminati lungo il tracciato del muro, rivolgendo un commosso pensiero non solo ai fuggiaschi uccisi durante i tentativi di attraversamento, sul cui numero ancora non si è fatta piena luce, ma anche a tutte le vittime della tirannide comunista, ovunque perpetrata, che secondo lo storico francese Stéphane Courtois ammontano a circa cento milioni (1).

L’INIZIO DELLA FINE

Già dagli anni settanta Berlino Ovest, nonostante la sua complessa collocazione geografica, divenne un polo di attrazione soprattutto per i giovani, che ivi si trasferirono per frequentare prestigiose facoltà universitarie. Nacquero numerosi locali alla moda e la musica divenne un importante collante anche per famosi artisti. Nel 1977, David Bowey, affacciatosi alla finestra di uno studio di registrazione, vide due giovani che si baciavano al di là del muro. La scena lo commosse e funse da stimolo per uno dei suoi brani più famosi: “Heroes”. Dieci anni dopo, il 6 giugno 1987, in un memorabile concerto davanti al Reichstag, cantò il brano al cospetto di una folla sterminata e i versi lancinanti, diffusi da potenti altoparlanti, furono ben percepiti da decine di migliaia di giovani assiepati lungo il muro, “dall’altra parte”. Non potevano godersi lo spettacolo come i loro coetanei occidentali, ma le parole del brano giunsero come pugni nello stomaco: “Io, io sarò re e tu, tu sarai la regina, sebbene niente li porterà via possiamo essere eroi, solo per un giorno. Io, io posso ricordare (mi ricordo) in piedi accanto al muro e i fucili spararono sopra le nostre teste e ci baciammo, come se niente potesse accadere; la vergogna era dall’altra parte. Oh possiamo batterli, ancora e per sempre. Allora potremmo essere eroi, anche solo per un giorno. Possiamo essere eroi”. Sei giorni dopo fu la volta del presidente statunitense Ronald Reagan, che parlò ai berlinesi di fronte alla Porta di Brandeburgo e lanciò il famoso appello a Gorbaciov, che scosse il mondo: “Accogliamo con favore il cambiamento e l’apertura, perché crediamo che la libertà e la sicurezza vadano insieme, che il progresso della libertà umana non può che rafforzare la causa di pace nel mondo. C’è solo un’azione che i sovietici possono fare che sarebbe inconfondibile, che farebbe avanzare drammaticamente le cause delle libertà e della pace. Segretario generale Gorbaciov, se cerca la pace, se cerca la prosperità per l’Unione Sovietica e per l’Europa orientale, se cerca liberalizzazione, venga qui a questa porta. Signor Gorbaciov apra questa porta. Signor Gorbaciov, Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!” I tempi, oramai, erano maturi per un radicale e “repentino” cambiamento. Nel mese di luglio molti tedeschi orientali decisero di occupare le ambasciate della Repubblica Federale a Berlino Est, a Praga, a Budapest, chiedendo asilo politico.

Le autorità politiche della RDT, prese alla sprovvista e in attesa di capire come muoversi, bloccarono i fuggiaschi nelle ambasciate, mentre le pressioni internazionali aumentavano giorno dopo giorno. Il 10 settembre l’Ungheria tirò una picconata micidiale alla RDT, aprendo i confini con l’Austria! La strada libera verso Ovest, attraverso l’Ungheria e l’Austria, era un dato di fatto! Non era più possibile tergiversare e così, il 30 settembre, fu diramato il permesso di espatrio ai profughi rifugiatisi nelle ambasciate. La gioia dei tedeschi all’annuncio fece il pari con la gioia di un mondo intero, eccezion fatta per pochi irriducibili nostalgici e per coloro che, all’interno del regime, occupando posizioni di potere, sentivano il terreno franargli sotto i piedi. Il comunismo iniziava realmente a sgretolarsi come neve al sole in tutta l’Europa orientale: un sole rappresentato dai sorrisi festosi dei profughi che si dirigevano verso l’Occidente, ripresi e replicati all’infinito da tutte le emittenti televisive, fungendo da catartica palingenesi per un mondo nefasto in dissoluzione. Tutti i tiranni, quando la storia bussa alla porta per chiedere il conto, si fanno trovare impreparati: non pensano mai che prima o poi quel momento arriverà. Erich Honecker non sfuggì alla regola e anche in lui la follia dell’impossibile prese il sopravvento sulla realtà, che cercò di stravolgere con iniziative assurde: tentò di far passare il messaggio che fosse stato lui a “espellere” i tedeschi ribelli, che obbligò a salire su “treni speciali” affinché tutti li vedessero.

L’iniziativa, però, si trasformò in un boomerang: in ogni stazione, infatti, i treni speciali, più appropriatamente chiamati “treni della libertà”, invece di transitare nell’indifferenza generale o addirittura osteggiati dai residenti, furono presi d’assalto da migliaia di cittadini desiderosi di salire a bordo. Il re, oramai, era più nudo che mai: non aveva capito che il suo mondo aveva iniziato a sgretolarsi già da molto tempo e che il primo segnale, l’elezione di un papa polacco, risaliva addirittura al 1978; non aveva compreso (o non aveva voluto comprendere) la portata dirompente di Solidarnoœæ in Polonia e gli effetti del premio Nobel per la pace conferito a Lech Wałęsa nel 1983; non aveva compreso i concetti di “perestrojka e glasnost”, proposti e imposti da Gorbaciov sin dal 1985, lasciando affiorare le gravi distonie socio-economiche obnubilate dai suoi predecessori; aveva sottovalutato i fermenti nelle repubbliche baltiche e ritenuto che, al momento opportuno, la “grande madre Russia” si sarebbe comportata come a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968: carri armati e soldati spietati per fermare la rivolta del popolo “ingrato”.

Grande fu la delusione, pertanto, quando Gorbaciov si recò a Berlino il 7 ottobre e fu accolto dalle grida festose e imploranti del popolo, che a lui si rivolgeva chiedendo aiuto. “Gorby salvaci”, imploravano, in una sorta di isterismo collettivo che non consentiva di far loro comprendere ciò che era chiaro a molti osservatori stranieri: si stavano salvando da soli ed era “il loro potere”, del quale non avevano ancora contezza, che stava debellando quello cui si rivolgevano speranzosi, in cerca di aiuto. Gorbaciov, dal suo canto, aveva ben compreso gli scricchiolii della storia e disse chiaramente ai governanti della RDT che si sarebbe dovuto cambiare qualcosa prima che fosse troppo tardi: “Chi arriva troppo tardi sarà punito dalla vita”, affermò, per far comprendere che nella RDT non si erano realizzate le riforme da lui auspicate e quindi “la punizione” sarebbe stata una logica conseguenza. Altro che carri armati! Undici giorni dopo Honecker fu costretto a dimettersi, lasciando il potere (sempre più effimero) a Egon Krenz, il quale, seppure non aveva alcuna intenzione di “cambiare registro” e tentò con ogni mezzo di impedire l’esodo dei connazionali, fu costretto dalla crescente opposizione pubblica a riaprire il confine con la Cecoslovacchia, precedentemente chiuso proprio per impedire ai tedeschi orientali di utilizzare il paese confinante come via di fuga per raggiungere la Germania occidentale.

9 NOVEMBRE 1989: UN GIORNO COME UN ALTRO

L’otto novembre, Gerhard Lauter, alto funzionario del Ministero degli Interni, ricevette l’ordine, dal ministro Friedrich Dicckel, di elaborare nuove regole di viaggio per i cittadini della RDT interessati a lasciare per sempre il paese (partenza permanente). Il funzionario ritenne molto stupido un regolamento che facilitava la vita a chi desiderava abbandonare il paese e non prendeva in considerazione coloro che, magari, volevano solo recarsi in vacanza all’estero e rientrare, o semplicemente allontanarsi per una breve visita a parenti e amici: a costoro il permesso sarebbe stato negato e la differenza di trattamento poteva considerarsi palesemente assurda. Di concerto con il capo dipartimento degli affari interni, il generale Gotthard Hulbrich, e due dirigenti della STASI, il colonnello Hans-Joachim Krüger e il colonnello Udo Lemme, Lauter inserì nel regolamento un paragrafo suppletivo che, di fatto, non poneva restrizioni per i viaggi all’estero, se non per motivi eccezionali. Nella mattinata del 9 novembre i quattro si riunirono presso la sede del Comitato Centrale per stilare la versione definitiva del nuovo regolamento e inviarla al ministero.

Al termine di un’animata discussione sulle problematiche inerenti anche ai rapporti con Mosca, alle 9:47 il documento era pronto per essere consegnato al ministro Erich Mielke, compito che si assunsero Lemme e Krüger. Tre minuti dopo la loro partenza giunse presso la sede del Comitato Centrale, a riunione già iniziata, Gunther Schabowski, portavoce del nuovo governo, che prese posto accanto al presidente Krenz. Quando giunse il suo turno lesse una noiosa relazione, autoreferenziale, con la quale esaltava le nuove strategie di comunicazione della RDT, per poi uscirsene a fumare. Non sapeva nulla delle modifiche apportate al nuovo regolamento di viaggio, una copia del quale era proprio sul tavolo dove era seduto, davanti al presidente Krenz, con un appunto precedentemente inviato dal vecchio ministro Friedrich Dickel, che consigliava di diffondere quelle disposizioni alle quattro del giorno seguente, per non dare a sovietici e cecoslovacchi il tempo di chiudere le frontiere. Krenz, però, nonostante sapesse che il regolamento avrebbe potuto ancora subire delle modifiche dopo la supervisione di Dickel, decise comunque di sottoporlo all’approvazione del Comitato Centrale, per conferire importanza alla riunione da lui presieduta, registrando negli atti un voto su una problematica alla ribalta planetaria. Approfittò della pausa pranzo e lesse frettolosamente il documento ai distratti membri presenti, solo otto su diciassette, che votarono senza nulla eccepire e senza nemmeno comprendere cosa avessero votato, secondo metodiche ben consolidate che di certo non consentivano “opposizioni” alle deliberazioni del presidente.  Schabowski era tra gli assenti e quindi restò all’oscuro di tutto, ma era lui che, in virtù del ruolo ricoperto, doveva sobbarcarsi il noioso e quotidiano compito di conferire con i giornalisti. Alle 17,20 si recò da Krenz per concordare cosa dire alla stampa e ricevette l’autorizzazione a riferire quanto approvato dal Comitato Centrale: a Krenz era sfuggito l’appunto del suo ministro, che comunque era ben evidente nei fogli che Schabowski infilò in borsa, senza preoccuparsi di leggerli prima di precipitarsi in sala stampa!

È L’ORA DI RICCARDO EHRMANN

In sala stampa i giornalisti avevano le solite facce annoiate. Erano lì per dovere, ritenendo che ancora una volta avrebbero ascoltato le solite notizie confezionate ad arte per il pubblico e non certo quelle importanti, discusse nelle segrete stanze del potere. Il giornalista italiano Riccardo Ehrman, corrispondente dell’ANSA, era giunto con qualche minuto di ritardo e, non trovando una sedia libera, si sedette sul ripiano del palco riservato ai relatori, a pochi metri da Schabowski, che iniziò a recitare il suo copione, sciorinando le solite litanie autoreferenziali sul regime, accennando a qualche errore commesso e bla bla bla. Riccardo Hermann, al termine della prolusione, gli pose una domanda precisa: “Signor Schabowski, riguardo agli errori, non pensa che sia stato un grande errore proporre la bozza di una nuova legislazione sui viaggi?”Non credo – replicò Shabowsky – sappiamo di questa tendenza nella popolazione. Questo desiderio della popolazione di viaggiare e anche di lasciare la Germania Est… [Continuò, poi, con una lunga disquisizione sui problemi dell’Occidente (secondo la visione che si ha nell’Est, ndr), sulla necessità di garantire condizioni di vita accettabili, etc., precisando che la nuova legislazione era ancora una bozza, perfezionabile. Prese i fogli e iniziò a leggere le disposizioni, anche da lui viste per la prima volta “…oggi abbiamo deciso, quindi, di approvare una legge che rende possibile a ogni cittadino di attraversare i confini direttamente attraverso i checkpoint della RDT”. Hermann: “Senza passaporti?“Si, Compagni.  Mi è stato detto che oggi è stato diramato un comunicato stampa, che già dovreste avere (mormorii in sala perché nessuno aveva ricevuto nulla, ndr). Le domande di viaggio all’estero da parte dei privati possono ora essere fatte senza i requisiti precedentemente esistenti e i motivi per il rifiuto possono essere applicati solo in casi eccezionali. I dipartimenti responsabili del passaporto e del controllo di registrazione negli uffici distrettuali della polizia popolare della Repubblica Democratica Tedesca sono incaricati di rilasciare i visti per l’uscita definitiva senza ritardi e senza presentazione dei requisiti esistenti per l’uscita permanente. Tutti i checkpoint tra RDT e RFT possono essere utilizzati. I cittadini che vogliono lasciare la RDT non hanno più bisogno di viaggiare attraverso un terzo paese. Per quanto concerne i passaporti ora non posso rispondere a questa domanda perché è un problema tecnico: il passaporto deve prima essere realizzato e poi consegnato affinché tutti ne siano in possesso”. Ehrmann intuisce che la replica assume un’importante valenza storica e incalza: “Ab wann?” (Da quando?) Schabowsky aggrotta la fronte e guarda con attenzione sui fogli, per poi replicare lentamente, senza celare una sorta di stupore: “Das trit nach meiner kenntnis… ist das sofort” (Ciò si verifica… per quanto ne so… da subito), per poi precisare leggendo con ritmo più sostenuto: “Il Consiglio dei Ministri ha deciso che fino a quando la legislazione formale non sarà approvata dal parlamento questo preliminare sarà valido”. Ehrmann: “E’ valido anche per Berlino (Ovest) o solo per la Repubblica Federale?” “Certo, certo, possono essere utilizzati tutti i checkpoint, anche quello di Berlino Ovest”. Sono le 18,53 del 9 novembre 1989 e la storia, beffarda, muove i suoi fili affinché accada ciò che deve accadere. I cittadini della Germania orientale, che guardavano in diretta la conferenza stampa, non credono alle loro orecchie! Lo stesso accade nell’Ovest quando la notizia iniziò a essere diffusa.

Nei posti di frontiera iniziarono subito ad ammassarsi frotte d’increduli cittadini. Qualche guardia tentò ancora di indurli a rientrare nelle case, spiegando che non era possibile attraversare la frontiera, ma alle 21 le persone erano così numerose che nei poliziotti si diffuse un vero e proprio panico. Non avevano ordini, nessuno rispondeva al telefono e di certo non se la sentivano di assumersi la responsabilità di sparare! Anche a Mosca erano tutti sgomenti per le immagini che giungevano da Berlino e Gorbaciov telefonò a Helmut Kohl per chiedergli cosa stesse accadendo: “I miei generali – gli riferisce – hanno avuto la richiesta di intervenire con i carri armati”. Kohl lo invitò a non impartire l’ordine, che avrebbe potuto generare una carneficina e creare i prodromi di una guerra. Finalmente le guardie di frontiera decidono di far passare i cittadini muniti di documenti attraverso i tornelli, uno per volta, ma la pressione era così forte che il capo delle guardie ordinò di alzare le sbarre. Il muro è caduto! Le immagini dei cittadini che si abbracciano festanti fanno il giro del mondo. Non vi sono più tedeschi orientali e occidentali ma tedeschi e basta, anche se si dovrà aspettare il 3 ottobre 1990 per la definitiva riunificazione. I regimi comunisti iniziano a crollare come birilli in tutta Europa e il 25 dicembre 1991 anche l’Unione Sovietica si dissolve. L’immagine della bandiera rossa che viene ammainata sul Cremlino fa piangere gli uomini di buona volontà in ogni angolo del pianeta, generando pensieri di speranza e fiducia. Almeno per un po’.

CONCLUSIONI (AMARE)

Il 9 novembre 1989 è una delle date più importanti di tutta la storia dell’umanità, perché segna una svolta epocale e irreversibile. Non importa se il mondo, negli ultimi quaranta anni, ha registrato un deterioramento dovuto a molteplici cause, sulle quali ci siamo compiutamente soffermati e continueremo a soffermarci. La sconfitta del comunismo, nell’Occidente, non è stata una cosa insignificante e non è possibile alcun processo comparativo con i guasti contemporanei. Sarebbe come affermare, scioccamente: “Sì, abbiamo sconfitto peste e malaria, ma il mondo è comunque in pericolo a causa del terrorismo e dei cambiamenti climatici”. Eppure, per quanto concerne questo importante evento, si registra la persistente volontà di obnubilarne la portata, prospettando proprio stupide comparazioni tra i “guasti” di ieri e quelli attuali, per proporre improbabili giustificazioni dei primi. È stato davvero triste vedere la scarsa attenzione riservata dalla stampa alla caduta del muro di Berlino, nel giorno del quarantennale, e non può essere addotta come giustificazione la crisi dell’ex ILVA, che ha goduto di assoluta priorità mediatica: anche un semplice redattore sarebbe stato in grado di strutturare le prime pagine in modo da bilanciare armonicamente le notizie, per poi conferire loro il giusto risalto nelle pagine interne. Nulla di tutto questo è avvenuto, invece. La cosa più triste e grave, poi, riguarda una “prestigiosa” rivista di geopolitica che, seppure afferente al variegato universo sinistrorso, il più delle volte offre analisi interessanti o addirittura condivisibili, soprattutto in tema di scenari globali.

La seguo da sempre e non mi danno fastidio gli articoli distonici rispetto alla mia weltanschauung, essendo del tutto normale che ve ne siano. Anche in essi, tra l’altro, a volte è possibile reperire spunti di riflessione interessanti, o notizie certificate che consentono di allargare gli orizzonti speculativi su qualsivoglia argomento. Si può immaginare lo sgomento, pertanto, nel leggere come sia stato trattato il quarantesimo anniversario della caduta del muro, nel numero a esso dedicato. Una sequela di articoli che definire deliranti è poco, intrisi di quel raffinato stile descrittivo che li rende credibili agli occhi dei più. Sanno scrivere bene, gli autori di sinistra, le mistificazioni che sciorinano con la sicumera dei grandi avvocati, alla perenne ricerca del cavillo più adatto a mettere nell’angolo il giudice e salvare l’imputato colpevole. A parte la sensazione di disgusto, dopo averli letti, ho avvertito un vero senso di sofferenza. Ho acceso il PC, mi sono collegato alla pagina ISSUU di questo magazine, sfogliando alcuni vecchi numeri e riflettendo su come fossimo davvero in pochi a cercare di mantenere alto il vessillo dell’onestà intellettuale. Mi sono sentito come Aragorn di fronte al nero cancello, con un pugno di umani circondato da un esercito di mostri. Egli, però, apparentemente senza speranza di poter vincere contro un nemico mille volte più numeroso e meglio armato, poteva contare su Frodo che si accingeva a buttare l’anello del male nelle viscere del Monte Fato e salvare l’umanità con un semplice gesto. Con mesta tristezza ho dovuto ammettere che non esiste alcun Frodo, oggi, sui pendii del Monte Fato e mi sono assopito con la solita visione nata dalla suggestione di Ernst Jünger: “Se chiudo gli occhi vedo talvolta un paesaggio oscuro con pietre, rocce e montagne all’orlo dell’infinito. Nello sfondo, sulla sponda di un mare nero, riconosco me stesso, una figurina minuscola, che pare disegnata col gesso. Questo è il mio posto d’avanguardia, sull’estremo limite del nulla: sull’orlo di quell’abisso combatto la mia battaglia”.

NOTE

1) Riporto i dati rilevati dal “Libro nero del comunismo” (Mondadori editore, 1999) per dovere di cronaca e nel pieno rispetto degli autori, che hanno svolto un duro lavoro di ricerca. Senza alcuna pretesa di impossibili comparazioni con i prestigiosi accademici, tuttavia, avverto il bisogno di precisare che i miei ultraquarantennali studi sui disastri provocati dal comunismo mi portano a conclusioni diverse, limitatamente al numero delle vittime, che secondo i miei calcoli ammontano ad “almeno” 130milioni, senza contare quelle “indirette”: suicidi e morti per malattie provocate dalle continue vessazioni, anche in età giovanile, che sfuggono a ogni possibile calcolo perché quasi sempre attribuiti ad “altre cause”. Da non sottovalutare poi, il concetto di “vita peggiore della morte”, da sempre dibattuto dai grandi filosofi, a cominciare da Seneca (“Consolatio ad Marciam”, inserito nel saggio “Le consolazioni, a Marcia, alla madre Elvia, a Polibio”, Edizioni BUR, 1987) in virtù del quale ogni calcolo è impossibile.

Lino Lavorgna

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