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Usa: il sonno della ragione genera mostri

epa08923413 Supporters of US President Donald J. Trump in the Capitol Rotunda after breaching Capitol security in Washington, DC, USA, 06 January 2021. Protesters entered the US Capitol where the Electoral College vote certification for President-elect Joe Biden took place. EPA/JIM LO SCALZO

Era tutto prevedibile

Sorpresa e sconcerto traspaiono dai media di tutto il mondo nei servizi dedicati allo scempio verificatosi ieri a Capitol Hill, cuore del governo statunitense, preso d’assalto dai facinorosi tifosi di Trump, che proprio non vogliono rassegnarsi alla sconfitta, nonostante 78.764.266 cittadini abbiano consacrato Biden come il presidente più votato nella storia degli USA.

In una democrazia basta un voto di differenza per vincere un’elezione: Biden ne ha presi ben 5.637.779 in più di quelli destinati a Trump e ciò rende ancora più sconvolgente quanto accaduto nelle ultime settimane e il feroce assalto di ieri, che purtroppo ha causato la morte di ben quattro persone. Gli USA sprofondano in un baratro dal quale sarà difficile risalire in tempi brevi e lasciano trasparire, in modo incontrovertibile, ciò che solo gli analisti più accorti vanno predicando da tempo: i grossi limiti di una società malata fino al midollo; il deficit etico che scaturisce dalla placida accettazione di aberranti regole di vita, volte a premiare il più gretto materialismo e lontane mille miglia dalle più elementari norme di giustizia e di attenzione al bene comune. Altro che “più grande democrazia del mondo!”.

La sorpresa che traspare in molte cronache giornalistiche, pertanto, è del tutto ingiustificata ed evidenzia quanto meno una “cecità” nel comprendere le fenomenologie della società statunitense, al netto delle complicità che, ovviamente, non mancano mai e non fanno testo.

Senza alcuna volontà autoreferenziale, che è sempre sgradevole, facendo comunque parte di quella scarna schiera di analisti con la vista lunga, trascrivo alcuni passi di un articolo del luglio 2016, “Bye Bye american dream”, pubblicato sul Secolo d’Italia e su Confini, facilmente reperibile in rete, nel quale di fatto, anticipavo tutto ciò che sarebbe poi successo, partendo dalle cause remote. L’articolo risale al mese di luglio, quando tutti pensavano che sarebbe stata la Clinton a vincere le elezioni, convincimento che perdurò fino alla notte del voto. La prima previsione della vittoria di Trump la feci nel mese di marzo e dovetti aspettare ottobre per avere la “compagnia” del famoso regista Michael Moore: due persone su sette miliardi di essere umani, al netto dei fan, che ovviamente non fanno testo perché adusi a trasformare in certezza i desideri.

“Comunque andrà a finire, il prossimo novembre, gli Stati Uniti avranno un pessimo presidente e ciò rappresenterà un problema per il mondo intero. (Azzardo una previsione: vincerà Trump. Purtroppo questa volta non posso nemmeno aggiungere il solito refrain che chiude le mie previsioni: “…spero di avere torto”).

Per capire il successo di Trump e il suo appeal sull’opinione pubblica, un appeal trasversale, che coinvolge anche molti “democratici” (sia pure nei limiti che tale termine assume nella società americana, capace di esprimere individui che coniugano i loro principi democratici con il più esacerbato razzismo), non basta soffermarsi sulle vicende recenti, sulla paura nata dal diffuso terrorismo e dalle angosce post 11 settembre.

Bisogna andare molto indietro nel tempo, fino agli albori della   colonizzazione europea delle Americhe. Un’ideologia americana esiste solo come rifiuto di quella europea e non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’America stessa è il rifiuto materiale dell’Europa.

Tutto ciò che l’Europa non sopportava e tutti coloro che l’Europa non sopportavano, hanno trovato terreno fertile nel “Nuovo mondo”, realizzando quel melting pot che sopravvive tutt’oggi: puritani perseguitati dagli anglicani, cattolici perseguitati dai protestanti, protestanti perseguitati dai cattolici, ebrei vittime dei progrom, insofferenti con pulsioni anarchiche, visionari di ogni ordine e grado. A costoro si aggiunsero gli “affamati”, che il vecchio continente abbandonarono loro malgrado e con sommo rammarico, per necessità vitali legate alla mera sopravvivenza.

Dall’incontro-scontro di queste due componenti nacquero gli Stati Uniti d’America e le tante contraddizioni che ancora oggi permeano la società. Molto negativo il condizionamento sociale generato dai rifiuti, che diedero vita alle varie organizzazioni criminali; fondamentale quello degli affamati che, lavorando sodo, crearono il mito “dell’american dream”.

Le colonizzazioni, del resto, sotto questo profilo, si assomigliano tutte. Gli italiani di oggi, in massima parte, sono i discendenti dei tanti dominatori che si sono succeduti nel corso dei secoli e portano nel DNA sia il retaggio ancestrale delle dominazioni positive (Normanni, Svevi, Longobardi) sia quello nefasto delle colonizzazioni negative (Aragonesi, Spagnoli, Angioini), sorvolando su quelle degli arabi e dei francesi, la cui analisi sociologica, dicotomica tra bene e male, richiederebbe troppo spazio, portandoci fuori tema.

Il primo dato da prendere in considerazione è il marcato calvinismo insito nella società americana, intriso di quel puritanesimo che, sostanzialmente, genera una società incapace di individuare dove si annidi il vero male.

In Europa siamo abituati a concepire le guerre d’indipendenza come la rivalsa dei popoli tiranneggiati. La guerra d’indipendenza americana fu solo l’arrabbiata reazione dei coloni alle restrizioni commerciali imposte dalla madre patria. Il collante fu determinato dal primato del profitto su ogni altro elemento sociale e “il possesso di beni e soldi” come unico termine di paragone per sancire le differenze.

Lo stesso concetto di uguaglianza naturale, che è bene ricordarlo precede quello affermatosi in Francia, è antitetico al modello europeo. In America è dalla “libertà” che deriva l’uguaglianza e non viceversa e la differenza, che a prima vista potrebbe apparire effimera, essendo analogo il presupposto originario – tutti gli uomini nascono liberi e uguali – assumerà un rilievo fondamentale nel processo evolutivo della società americana.

Un altro aspetto che può aiutarci a capire fenomenologie sociali sconvolgenti per un europeo, è la naturale propensione al cattivo gusto, in ogni contesto. La mancanza di gusto e senso estetico che ha sempre caratterizzato la madre patria è stata coperta e mascherata dalla vicinanza con gli altri paesi europei, una vicinanza che, ovviamente, persisterà anche con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Con il progressivo distacco dalla madre patria, però, l’America ha potuto affermare il primato mondiale della volgarità in tutti i campi. Mentre in Inghilterra la società aristocratica precipitava verso la borghesia, negli USA si affermava la parodia della società europea, conferendo nobiltà esclusivamente al dio denaro.

La parola gentleman non ha varcato i confini della madre patria e non esiste nel costrutto sintattico statunitense, alla pari di lady. Il termine business, che originariamente intendeva caratterizzare un individuo semplicemente “impegnato a fare qualcosa”, è stato mutuato in quello più consono al tipo di mentalità che si andava affermando, divenendo “affare”.

Di rilevante importanza, a tale proposito, il saggio di Guglielmo Ferrero, “Fra i due mondi”, del 1913, nel quale lo storico distingueva le civiltà quantitative da quelle qualitative, spiegando che l’accumulo delle ricchezze porta al progressivo declino della società. Nelle società qualitative (il Ferrero si riferiva precipuamente al mondo greco-romano) si producono capolavori, opere d’arte in grado di elevare lo spirito, muovendosi entro limiti prestabiliti.

Nelle società quantitative l’unico scopo è l’accrescimento della ricchezza, senza limiti (e poi anche “senza regole”), generando quelle fratture sociali che, inevitabilmente, sfociano in guerre. Già nel 1913 quindi, Ferrero vedeva nel dinamismo americano uno sviluppo incontrollato e incontrollabile della tecnica produttiva. Una civiltà, quindi, senza valori stabili e senza freni interni, che preparava da sé la propria catastrofe. È stato un valido profeta.

 Lo storico statunitense Henry Steele Commager, nel 1952, con il saggio “Lo spirito Americano”, ripropone la tesi di Ferrero: “La peggior disgrazia che potesse capitare a un partito politico era una crisi economica e la più grave obiezione a una legge era la sua nocività per gli affari. Tutto ciò tendeva a dare una forma quantitativa al pensiero, conducendo l’americano a mettere pressappoco al di sopra di tutto una valutazione quantitativa. Quando domandava quanto valeva un uomo, voleva parlare del valore materiale, e si irritava di ogni altro sistema di apprezzamento. Anche la soluzione che proponeva a numerosi problemi era quantitativa, e che si trattasse dell’educazione, della democrazia o della guerra, il trattamento attraverso i numeri era il rimedio sovrano”.

L’american way of life trasforma una società viva in una società meccanica, avulsa dai reali valori e imperniata sull’apparire, in funzione del conto in banca e del “ben-essere” che si riesce a mettere in mostra. Il concetto di “essere” è del tutto sconosciuto. […]

Una società sostanzialmente mediocre, quindi, vuole essere rappresentata da uomini mediocri, che sente vicini. Uomini colti e raffinati, che pure vi sono, non hanno alcuna possibilità di affermarsi oltre certi limiti. Al Gore, che sarebbe stato il miglior presidente della storia degli USA, è un esempio eclatante di questo postulato. Il capo dello Stato deve essere un uomo come gli altri, un “brav’uomo”; se fosse superiore, un “uomo bravo”, inquieterebbe. In una democrazia normale si spera che siano i migliori a prevalere.

In America, invece, si amano i winners. Non importa come siano diventati tali, purché siano e appaiano il più possibile delle persone comuni. Nella campagna elettorale il politico che vuole vincere le elezioni deve preoccuparsi di assecondare gli umori della massa, recitando la propria commedia con un tasso di ipocrisia che non ha eguali al mondo. Il secondo emendamento, che costituisce un abominio, è argomento tabu per ogni politico che aspiri a vincere le elezioni.

Parlarne significa mettersi contro la maggioranza degli elettori e le potenti lobby delle armi: la sconfitta è sicura. La cinematografia, anche quella statunitense, non ha mancato di evidenziare le molteplici e gravi distonie della politica statunitense. Recentemente, però, con la fiction “House of cards”, si è passati a una divulgazione quasi didattica del marciume insito nel sistema.

Paradossalmente, invece di aprire gli occhi, gli americani sembrano affascinati dallo scarso o nullo senso etico con il quale vengono rappresentati i cinici politici, pronti a tutto pur di raggiungere il potere. […] Da qui all’affermazione di Trump, il passo è breve. La Clinton, ovviamente, gli è superiore in tutto, anche se per certi versi rappresenta il lato “B” della stessa medaglia”.

Se vincesse lei avremmo “il male minore”. Ma bisogna smetterla sia con il male maggiore sia con quello minore. È ora che questo mondo inizi ad affidarsi ai migliori. Dappertutto”.

Era tutto scritto

Tutto ciò premesso, bisogna anche considerare che quanto accaduto ieri ha radici ancora più antiche, che riguardano i processi evolutivi dei regimi politici, trattati da Erodoto, Platone, Aristotele e, in modo ancora più significativo, da Polibio che, nel libro sesto delle Storie, elabora la teoria dell’anaciclosi, con evidente riferimento a quanto già sancito da Aristotele nel libro terzo della Politica. Le buone forme di governo, in cui trionfano giustizia e ragione, si alternano a forme di governo corrotte, dominate dalla violenza, dalle passioni e dagli interessi individuali.

La monarchia, retta da un solo individuo, nella fase corrotta, si tramuta in tirannide; la parte migliore dei cittadini si ribellerà alla tirannide dando vita a un’aristocrazia, inevitabilmente destinata a degenerare nell’oligarchia; per correggere i guasti dell’oligarchia si darà vita alla democrazia, a sua volta destinata a degenerare nell’oclocrazia, che porta il governo alla mercé dei desideri insulsi delle masse, sempre incapaci di guardare al di là del proprio misero orticello.

Per Polibio le pubbliche elezioni dovrebbero consentire di delegare il potere agli uomini più giusti e assennati. Non è democrazia, infatti, “quella nella quale il popolo sia arbitro di fare qualunque cosa desideri, ma quella presso la quale vigano per tradizione la venerazione degli dei, la cura per i genitori, il rispetto degli anziani, l’obbedienza alle leggi e infine quella nella quale prevalga l’opinione della maggioranza”. 

Il concetto di oclocrazia non ha ricevuto un’adeguata attenzione nei trattati di politologia e nelle analisi sociologiche. Plutarco ne parla nel primo capitolo del De unius in republica dominatione; nel II secolo è citato da uno storico “minore”, Lucio Cassio Dione, nel libro 44 della sua corposa Historiae Romanae, (ben ottanta libri che vanno dalla leggenda di Enea fino al 229 d.C). In epoca moderna il solo Rousseau ne parla nel Contratto sociale (Libro III, cap. X),  quale elemento degenerativo della democrazia a seguito della dissoluzione dello Stato.

Per gli intellettuali e politologi contemporanei, in massima parte asserviti a dei padroni, il concetto è pressoché sconosciuto, quando non volutamente misconosciuto. Fatti salvi pochi paladini della verità, infatti, è impossibile mettere alla berlina chi, senza porsi alcun limite etico, difenda con unghie e denti la poltrona e chi, quella poltrona bramando, combatte con non minore vigore e pari spudoratezza.

Niente di nuovo sotto il sole, quindi, ma solo normalissimi “corsi e ricorsi” che sanciscono, sostanzialmente, che l’uomo non è in grado di apprendere dai propri errori e, soprattutto, che la storia, contrariamente a un diffuso assioma, non è maestra di vita.

                                                                                 Lino Lavorgna

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