“Divorzio amichevole”, così è stato definito dal Financial Times l’accordo sulla Brexit che regolerà i rapporti commerciali tra Unione Europea e Regno Unito a partire dal primo gennaio 2021.
“Non c’è un vincitore nella Brexit, è una sconfitta il doversi separare, soprattutto nel mondo di oggi, un mondo pericoloso e instabile dove dobbiamo stare insieme, credo, soprattutto per avere peso specifico contro gli Stati Uniti e la Cina. Il Regno Unito ha scelto di essere solitario piuttosto che stare insieme a noi ed essere solidale”. Così si espresso Michel Barnier, capo negoziatore Brexit e di casa a Bruxelles in quanto ex commissario ed ex parlamentare europeo, che non è certo Richelieu ma ogni tanto qualcosa di sensato riesce a dirla.
In effetti l’espressione “divorzio amichevole” è un ossimoro: nessun divorzio lo è; gli amici, se sono davvero tali, non si separano. Le implicazioni commerciali alla ribalta della cronaca sulla Brexit costituiscono solo l’aspetto più appariscente di problematiche che investono i cittadini soprattutto nella loro essenza “spirituale”. Da decenni, oramai, il primato della politica si è progressivamente affievolito ed è l’economia (o per meglio dire, la finanza sporca) a dettare legge, con quali risultati per il bene comune è sotto gli occhi di tutti.
L’aspetto veramente importante non riguarda la ridicola querelle sulla quantità di pesce che si può pescare nelle acque territoriali inglesi e sulla “libera circolazione” delle merci ma nella sofferenza provocata a milioni di cittadini, ai quali la libera circolazione è negata, essendo considerati meno importanti di un fascio di broccoli. Addio programma Erasmus, per esempio, che tanto piace ai giovani universitari. Il resto dell’Europa è grande abbastanza, certo, ma resta il fatto che in Inghilterra non si potrà più andare.
La sofferenza maggiore, tuttavia, e anche la meno considerata, è quella provata da chi si senta violentato nello spirito per la perdita della propria identità comunitaria, di cittadino d’Europa. Scozzesi e nordirlandesi, ancorché fieramente e legittimamente attaccati alle loro radici, sentono forte questo sentimento e ora si trovano, ancor più che nel passato, nella triste condizione di sudditi sotto occupazione.
Sono tempi duri, questi, lo si sa, e ciascuno è preso dai problemi contingenti generati dalla terribile pandemia, dalle difficoltà economiche per la perdita del lavoro o per la chiusura della propria attività commerciale. Nondimeno è necessario “restare umani” e dimostrare vicinanza, anche solo simbolicamente, a chi tende la propria mano affinché qualcuno la stringa, infondendo calore.
L’Europa dei potenti non ha tempo per queste cose, essendo prevalentemente occupata a regolamentare il transito di broccoli, patate e pomodori e stabilire come e dove debbano essere pescati merluzzi e alici; siano i cittadini di buona volontà, pertanto, a sopperire a queste gravi lacune istituzionali.
Mai come in questo periodo è impossibile qualsivoglia previsione, anche se una cosa si può dire con assoluta certezza: l’Europa può fare a meno dell’Inghilterra, ma per nessuna ragione può fare a meno dell’Irlanda del Nord e della Scozia. Bene ha fatto la tenacissima Nicola Sturgeon, Primo ministro scozzese, a suonare la carica per il suo popolo, affinché sia recepita anche da tutti gli europei: “Vale la pena ricordare che la Brexit si sta realizzando contro la volontà della Scozia. E non c’è accordo che possa mai compensare ciò che la Brexit ci porta via.
È tempo di tracciare il nostro futuro come nazione europea indipendente”. Sintesi migliore non vi poteva essere: siamo europei – dice di fatto il Primo ministro – e vogliamo restare tali; dell’Inghilterra non ne vogliamo più sapere nulla.
Anche la dolcissima Mary Lou McDonald, che si è assunta “l’impossibile” compito di guidare il Sinn Féin dopo l’ultra trentennale gestione del gigantesco Gerry Adams, l’ultimo eroe d’Europa, con una storia personale che fa tremare i polsi, pur dovendosi barcamenare con formali e per nulla convinti riconoscimenti degli accordi commerciali (nel Nord Irlanda è tutto maledettamente più complicato) ha ricordato che il suo Paese aveva votato per restare e che “nonostante i desideri della gente, ora si trova fuori dall’Unione Europea a causa di una Brexit ispirata ai Tory”.
In Irlanda del Nord, anche se in forma ridotta rispetto al passato, il sogno di “A nation once again” persiste e trova nuovo alimento proprio dalle vicende attuali. I giovani millenials, nati quindi dopo gli accordi del Venerdì santo che misero fine ai terribili anni dei “troubles” , meno motivati dei loro genitori e nonni nel rivendicare l’unione con i confratelli dell’Éire in virtù di un naturale processo integrativo con le forze di occupazione, evidentemente non ritenute tali, percependo il disagio e la sofferenza di chi quegli anni ha vissuto da protagonista, stanno lentamente “approfondendo” la loro storia: una storia segnata dalle gesta eroiche di uomini straordinari come Michael Collins e Bobby Sands, tanto per citare due nomi simbolicamente di altissima risonanza. “A nation once again” vorrebbe dire un’Irlanda finalmente unita, in Europa.
È ben chiaro, quindi, che la vera “partita” inizia ora e nulla può essere dato per scontato.
Il primo gennaio 2021, pertanto, sia consacrato ai due meravigliosi popoli europei, in modo da far percepire la vicinanza e l’affetto di tutto il continente. Sarebbe bello se le pagine social dei massimi esponenti della causa indipendentista fossero inondate di messaggi affettuosi, ancorati a quei presupposti di solidarietà che sono il fondamento di una società civile.
Lino Lavorgna
Nella foto in alto, da sx: Gerry Adams, massimo esponente vivente della causa indipendentista irlandese; Mary Lou McDonald, erede di Gerry Adams alla guida del Sinn Féin; Nicola Sturgeon, Primo ministro scozzese; William Wallace, mitico eroe simbolo dell’indipendentismo scozzese.
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