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Dolore e rabbia

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Vite distrutte dal dissesto idrogeologico e chiacchiere insulse, senza costrutto, ripetute di volta in volta

PROLOGO

Napoli, Hotel Terminus, 20 novembre 1977. Seminario di studi ecologici sul tema: “Ambiente e urbanistica a dimensione d’uomo”. Parte conclusiva del discorso pronunciato dall’autore di questo articolo, all’epoca presidente dell’Associazione nazionale salvaguardia ecologica e dirigente regionale dei Gruppi di ricerca ecologica.

“[…] Oggi, quindi, abbiamo non solo le idee chiare sui limiti dello sviluppo ma anche gli strumenti più idonei per una consona tutela dell’ambiente, ancorata a sani presupposti di sviluppo sostenibile.

Paradossalmente, però, se l’Italia può vantarsi di aver promosso il fondamentale rapporto realizzato dagli scienziati del Massachusetts Institute of Technology, ha anche il triste primato di non aver fatto nulla, nell’ultimo quinquennio, per realizzare i programmi in esso suggeriti. Le associazioni ambientaliste tradizionali continuano a organizzare allegre scampagnate e a battersi per la difesa di leprotti, uccellini e agnellini.

Nobilissimi propositi, ovviamente, ma evidentemente non bastevoli a fronteggiare i disastri  provocati dallo sconsiderato attacco agli ecosistemi. Non possono fare nulla di più, del resto, essendo in massima parte o espressione diretta di quelle entità che dovrebbero contrastare o ad esse asservitesi, dopo aver ceduto a gradevoli, chiamiamole così, lusinghe.

È stata proprio questa consapevolezza che mi ha spinto, due anni fa, a chiudere ogni ponte con loro e a fondare l’ANSE, con il sano proposito di “volare alto”, cosa oggi facilitata grazie al connubio con i Gruppi di ricerca ecologica, che si muovono con analoghe finalità, ma con strumenti di diffusione mediatica senz’altro più potenti ed efficaci.

Un dato è certo: non si può tergiversare. Il Pianeta sta morendo e i popoli del mondo non hanno ancora compreso, in massima parte, il baratro nel quale stanno precipitando. Se non dovessimo correre ai ripari in fretta, nel giro di venti-trenta anni potrebbe essere davvero troppo tardi per intervenire.

Tutti noi che ci troviamo in questo splendido salone, e tanti altri amici qui non presenti, ma idealmente al nostro fianco, rappresentiamo la parte sana di questo Paese e l’avanguardia culturale capace di discernere il grano dal loglio.

Tocca noi, pertanto, produrre ogni sforzo affinché il validissimo messaggio di civiltà di cui siamo portatori si diffonda e permei le coscienze di chi, magari inconsapevolmente, si rende artefice delle proprie sventure.

Possiamo contare solo su noi stessi e non possiamo permetterci di fallire, essendo la posta in gioco troppo alta. È in pericolo la nostra stessa sopravvivenza e pertanto non posso che chiudere il mio intervento evocando il monito di  José Ortega y Gasset: “Io sono me più il mio ambiente e se non preservo quest’ultimo non preservo me stesso”.

PAROLE AL VENTO

Ancora una volta dobbiamo piangere la perdita di vite umane per eventi naturali che distruggono larghe fette del territorio. Fanno male le immagini che giungono dalla Toscana, dal Friuli, dal Veneto, dall’Emilia Romagna, così come hanno fatto male in passato analoghe immagini provenienti da qualsiasi altra regione.

Ogni volta un esercito di analisti sviscera le proprie convinzioni su ciò che si dovrebbe fare per contenere “l’emergenza climatica”, proponendo soluzioni e progetti evidentemente ritenuti risolutivi. Le loro parole sembrano barzellette che non fanno ridere, soprattutto se precedute o seguite dagli sfoghi con le lacrime agli occhi di chi ha perso tutto: casa, beni, prodotti pronti per essere immessi sul mercato.

In disgustose passerelle televisive, politici con la coscienza sporca si affannano a giustificarsi enunciando, senza ritegno né vergogna, tutto quello che “di buono hanno fatto” per scongiurare i disastri, “ma che occorrono più soldi per intervenire preventivamente”. Sin dall’alluvione di Firenze del 1966 si sente sempre lo stesso mantra, negli ultimi tempi supportato nei salotti televisivi dai soggetti più strambi, adusi a parlare senza  alcuna competenza specifica delle varie problematiche, per giunta lautamente retribuiti.

Ѐ trascorso quasi mezzo secolo dal convegno citato nel prologo, che segnò un punto di svolta nell’approccio con le tematiche ambientaliste. Vi parteciparono fior di studiosi e furono tracciate le linee guida per una vera rivoluzione verde, ancorata ai principi sanciti nel famoso “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, commissionato alla prestigiosa università statunitense dal “Club di Roma”, associazione non governativa fondata nel 1968 da Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King con l’intento di studiare i cambiamenti globali, individuare i problemi futuri dell’umanità e suggerire adeguati provvedimenti per scongiurarli.

Le parole da me pronunciate sembrano scritte oggi, a riprova che nei decenni successivi non si è fatto nulla né per porre rimedio ai disastri già allora evinti né per prevenire quelli futuri, che invece sono via via aumentati a dismisura. Che il Paese sia stato “depredato” a man bassa a partire dal dopoguerra da chiunque sia stato graziato con un minimo di potere e lasciato in balia della natura, del resto, non è un segreto per nessuno. E prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.

Oggi, di fatto, stiamo pagando il prezzo di oltre settanta anni di malapolitica e purtroppo non si fa nulla per correre ai ripari. Tra le parole al vento di chi, in scienza e coscienza propone soluzioni valide e le chiacchiere dilatorie di chi, cinicamente e con le tasche piene grazie alle ruberie perpetrate, se ne frega delle sofferenze altrui, si va avanti in modo vergognoso.

 SFORZIAMOCI DI NON PERIRE

“Viviamo un momento storico caratterizzato da un’enorme potenza tecnologica e da un’estrema miseria umana. La potenza della tecnologia si auto evidenzia in modo penoso nel numero di megawatt delle centrali elettriche e nei megatoni delle bombe nucleari.

La miseria dell’uomo si evidenzia nel pauroso numero di persone che già esistono e che presto nasceranno, nel deterioramento del loro habitat, la terra, e nella tragica epidemia, su scala planetaria, della fame e della povertà.

La frattura tra il potere brutale e l’indigenza umana continua ad allargarsi, dal momento che il potere si ingrassa grazie a quella stessa tecnologia sbagliata che acuisce l’indigenza. Ovunque, nel mondo, è evidente il fallimento di partenza del tentativo di usare la competenza, la ricchezza, il potere a disposizione dell’uomo per raggiungere il massimo di beneficio per gli esseri umani.

La crisi ambientale è un esempio macroscopico di questo fallimento: l’essere arrivati alla crisi è dovuto al fatto che i mezzi da noi usati per  ricavare ricchezza dall’ecosfera sono distruttivi dell’ecosfera stessa. Il sistema attuale di produzione è autodistruttivo; l’andamento attuale della società umana sembra avere come fine il suicidio. La crisi ambientale è il segno sinistro di un inganno insidioso, nascosto nella tanto decantata produttività e nella ricchezza della moderna società, basata sulla tecnologia.

Questa ricchezza è stata guadagnata con un rapido sfruttamento del sistema ambientale, ancorato sul medio termine, ma ha contratto ciecamente un crescente debito con la natura, caratterizzato dalla distruzione ambientale nei paesi sviluppati e dalla pressione demografica in quelli in via di sviluppo.

Un debito vasto e diffuso che, se non pagato, entro la prossima generazione potrà cancellare la maggior parte della ricchezza che ci ha procurato. In effetti i registri contabili della società moderna  sono in drastico passivo, tanto che, per lo più inavvertitamente, una grossa frode è stata perpetrata a danno della popolazione mondiale.

La situazione di rapido peggioramento dell’inquinamento ambientale ci ammonisce che la bolla sta per scoppiare, che la richiesta di pagamento del debito globale può sorprendere il mondo in bancarotta”.

Anche il testo succitato sembra scritto oggi, ma esso, addirittura, precede di ben sei anni il convegno al Terminus ed è possibile reperirlo nel prezioso saggio “Il cerchio da chiudere”, dello scienziato statunitense Barry Commoner. La generazione futura cui faceva riferimento è quella nata più o meno negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, una cui buona fetta ha già nelle proprie mani le sorti del Pianeta.

Eravamo nel 1971, quindi, e anche le sue sono rimaste parole al vento. Perché? Perché l’umanità, soprattutto a sud dell’Equatore, da illo tempore recita una farsa: a parole ambisce al cambiamento; nei fatti lo rifiuta, nascondendo la testa sotto la sabbia, non essendo disposta a modificare “autonomamente” quei deprecabili stili di vita inevitabilmente destinati ad essere comunque scombussolati dalle forze della natura, che si ribellano alla stupidità del genere umano, punendolo con crescente intensità.

                                                                                                            Lino Lavorgna

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