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«Se vuoi la pace, prepara la guerra»

INCIPIT

«Questo è il più grande rafforzamento e riposizionamento della difesa collettiva della NATO fin dai tempi della Guerra Fredda». Con questa frase, Jens Stoltenberg, segretario generale dell’Alleanza Atlantica, conquista il suo posto nella storia e induce il mondo a pensare a uno scenario apocalittico. Il dispiegamento delle truppe della Nato ai confini russi e il fallimento dell’incontro tra Merkel, Putin e Hollande, per trovare una soluzione ragionevole al conflitto in Ucraina, si riassumono in una sola parola, pronunciata con chiarezza da Hollande al termine dell’incontro: guerra. Una guerra su larga scala, nel continente europeo, dopo settanta anni. Non sono infondati, infatti, i timori della Merkel, che prevede una reazione aggressiva di Putin alla prova di forza (e alle sanzioni), magari attaccando una delle piccole repubbliche baltiche, membri dell’Unione Europea e della Nato. A quel punto la risposta potrebbe essere solo affidata alle armi (articolo dell’8 febbraio 2015 pubblicato su CONFINI).

LA GUERRA DELLE PAROLE

Nessuno vuole la guerra. Non la vogliono i potenti del mondo, a cominciare da Putin e Biden e soprattutto non la vogliono i milioni di persone che a causa di essa pagherebbero un prezzo altissimo, in perdite di vite umane e per le drammatiche conseguenze di ordine economico e sociale. Quella che si sta combattendo, pertanto, è soprattutto una “guerra di parole” con la quale ciascun contendente cerca di far percepire all’altro che non cederà di un millimetro dalla propria posizione “sullo scacchiere del contendere”. Prima o poi, si ritiene, si troverà una soluzione “diplomatica” che consenta a tutti di uscirne senza perdere la faccia. È già successo in passato, come ben traspare dall’incipit, anche se al momento, quale possa essere, non è ancora dato sapere.

Nel frattempo si registrano le prime scaramucce, con morti, in quella regione a Sud-Est della Crimea che comprende due mini-repubbliche separatiste, filo russe, complessivamente poco più grandi della Calabria per superficie e con un numero di abitanti più o meno analogo a quello della Val D’Aosta. Parlare di “prime scaramucce”, in realtà, è un eufemismo perché nel Donbass, le due enclave russofone  (Repubblica popolare di Lugansk e Repubblica popolare di Donetsk), dichiaratesi indipendenti dall’Ucraina nel 2014, negli ultimi otto anni hanno scatenato una guerra, molto gradita da Putin, che ha provocato già 22mila morti. Il potente neo zar non “vuole” la guerra, ma non “vuole” rinunciare a una regione importantissima: è ricca di grandi miniere di carbone; è sede delle acciaierie possedute dagli oligarchi a lui fedeli; la maggioranza dei residenti “vogliono” ricongiungersi con “Mamma Russia”, si rifiutano di parlare ucraino e sono fedeli a una Chiesa ortodossa filo-russa in contrasto con la Chiesa ortodossa ucraina.

LE GUERRE SCOPPIANO ANCHE QUANDO NESSUNO LE VUOLE

“Iskra” è un termine molto popolare in Russia, al di là del suo significato “intrinseco” (scintilla),  perché ricorda il giornale clandestino fondato nel 1900 da Lenin per diffondere i dettami rivoluzionari del marxismo. “Basta una scintilla” è l’espressione spesso usata alla vigilia di ogni crisi bellica. Nessuno voleva la I Guerra Mondiale, per esempio.  Non la voleva Guglielmo II, che con la pace vedeva prosperare la potenza economica della Germania, senza considerare il carattere pusillanime e il terrore per qualsivoglia pesante responsabilità impostagli dal ruolo; non la voleva Poincaré, ben consapevole che la Francia, ancora scossa per la batosta di Sedan e per la perdita dell’Alsazia-Lorena, non era pronta per un nuovo scontro con la Germania, nonostante le avesse tolto il primato di nazione più popolosa del continente; non la voleva Nicola II, pacifista, mediocre, tranquillo, amante della caccia, della bella vita di corte e anch’egli ben consapevole che un esercito in grado di combattere una guerra non sarebbe stato pronto prima del 1917.

Non era proprio il caso di correre rischi! Eppure la guerra scoppiò! Il feroce “nazionalismo”, che tende a vedere gli altri come potenziali nemici, radicato nelle coscienze di tutti i popoli d’Europa, fu la “vera scintilla” da cui scaturì il grande incendio, più ancora del famoso attentato di Sarajevo che funse solo da necessario prodromo di un evento che aveva iniziato a delinearsi già da una decina di anni, con le cinque grandi crisi continentali. Sono trascorsi oltre cento anni e nulla è cambiato, contrariamente a quanto sostenuto da Eric Hobsbawm nel suo celebre saggio “Il secolo breve – 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi”, nel quale sostiene la tesi che il periodo compreso tra la Prima Guerra Mondiale e il crollo dell’Unione Sovietica presenta un percorso storico “compiuto”, sostanzialmente diverso dal “secolo lungo”, che secondo lui va dalla Rivoluzione francese alla Belle Époque.

Errore grossolano, a quanto pare, perché anche dopo la caduta del muro di Berlino l’Europa non ha trovato “pace” e si può dire che siamo ancora in pieno “Novecento”, con difficili code da scorticare.  L’Europa non ha saputo trarre “insegnamento” dai tanti errori compiuti in passato ed è rimasta quella vecchia  baldracca che ha puttaneggiato in tutti i bordelli, contraendo le peggiori infezioni, quasi tutte culminanti in -ismo, le più pericolose delle quali, il liberalismo e il nazionalismo esasperato, sembrano immuni da ogni antidoto e imperversano indomite, continuando a creare immani disastri.

Si sta scherzando col fuoco, quindi, considerando anche la “qualità” (pessima) degli attuali protagonisti, al momento incapaci di trovare valide soluzioni per spegnere i tanti fuocherelli che potrebbero alimentare il grosso incendio. “Tanti fuocherelli” perché non può sfuggire a nessuno che il vero intento di Putin non è soltanto quello di impedire lo scivolamento della Crimea nell’orbita della Nato ma di “far ritornare” nell’orbita russa “tutti” gli stati che un tempo costituivano la grande Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Gioco molto pericoloso, evidentemente, al quale però l’attuale zar non intende sottrarsi.

LE COLPE DELL’EUROPA

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, chiosa il Manzoni, mettendo la frase sulle labbra di don Abbondio al termine del colloquio con il Cardinale Borromeo,  nel suo romanzo più famoso, quasi giustificandolo per non aver celebrato il matrimonio di Renzo e Lucia ed essersi fatto intimidire dai bravi di don Rodrigo. Se don Rodrigo, poi, si chiama Vladimir Putin e mostra i muscoli dopo aver accerchiato la Crimea, facendo volare nel cielo i missili ipersonici e tutto il potenziale balistico in grado di seminare morte e distruzione con le testate nucleari, si può ben comprendere come tremino le gambe ai governanti del continente e anche al loro potente alleato d’oltre oceano, che non può certo tirarsi fuori da questa partita.

La pur legittima comprensione della difficoltà oggettiva di muoversi con raziocinio in uno scenario dalle mille sfaccettature, che non può prescindere dai rapporti economici e dalla forte dipendenza energetica, non ci può esimere da ribadire quanto sia stato sbagliato rinunciare, sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, a creare i presupposti per una vera integrazione europea. Una integrazione “politica”, non solo economica (tra l’altro nefasta per alcuni Paesi, a cominciare dall’Italia) protesa alla realizzazione degli Stati Uniti d’Europa, con un governo federale, un Parlamento con pieni poteri e un unico “grande” esercito, il più potente del mondo, in grado da fungere da spauracchio per tutti.

Questi sono i fatti, tristi e inconfutabili. Che cosa fare ora? Ogni minuto si parla di “sanzioni”, invocate come deterrente anche dal povero presidente ucraino  Volodymir Zelensky, che avverte sulle proprie spalle il peso di momenti terribili. Le invoca ora, perché dopo l’attacco servirebbero a poco. E ha ragione, ovviamente, dal suo punto vista. Ma a cosa servirebbero le sanzioni, di fatto, se Putin decidesse “comunque di attaccare?”. Sarebbero solo un motivo in più per giustificare l’attacco e “motivare” il suo popolo contro la protervia di un Occidente che vuole espandersi militarmente fino ai “sacri “confini, immettendo la Crimea nella Nato e “impedendo” ai “compatrioti” del Donbass di riunirsi con la madre patria. Tutto ciò al netto di possibili conseguenze ben peggiori sul piano dei rapporti commerciali.

La “guerra delle parole” non può durare a lungo e l’Europa, anche in assenza di una unione realmente “politica”, dovrebbe trovare la forza di lanciare un segnale ben diverso. Un segnale rappresentato da un concreto sostegno militare all’Ucraina, mostrando a sua volta i muscoli a Putin e, una volta tanto, come “Europa”, senza alcun bisogno del cappello “Usa”. Anche Putin è un essere umano e la sua forza nasce precipuamente dalla debolezza altrui. Se abbiamo davvero il coraggio di dire: “Si vis pacem para bellum” e soprattutto facciamo ben capire il concetto al suo popolo, dimostrando di essere pronti a “levarci in armi in un mare di triboli per disperderli combattendo” sarà lui a tremare. E forse ritorneremo, finalmente, a essere un’Europa diversa e migliore da quella che fece dire a Paul Valery, oltre cento anni fa, con tono sdegnato: «Questi meschini europei hanno preferito logorarsi in lotte intestine, invece di assumersi nel mondo il grande ruolo che i Romani seppero assumersi e mantenere per secoli».

                                                                                                                      Lino Lavorgna

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