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Facebook e la battaglia contro i post estremisti

“Offrire alle persone la possibilità di condividere per un mondo più aperto e connesso”, ha ripetuto continuamente come un mantra Mark Zuckerberg, ideatore di Facebook, spiegando a suo dire la missione della tecnologia. Oggi che ci troviamo come per definizione del linguista Marco Verardi nell’era della “dromocrazia”, cioè nel dominio della corsa, il social network più popolare al mondo con 2,80 miliardi di utenti attivi ha centrato l’obiettivo di veicolare una quantità incessante e continua di contenuti e informazioni.

Ma come ogni grande rivoluzione della storia che divide gli esseri umani tra apocalittici e integrati, tra chi intravede cioè nel cambiamento una catastrofe e chi invece ne esalta le potenzialità, così anche il fenomeno Facebook ha aperto interrogativi e scenari mai affrontati prima. Terrorismo, cyber bullismo, disinformazione, propaganda sovversiva, violazione della privacy, pornografia e crimini informatici, sono solo alcuni alcuni dei risvolti di un strumento che in rete diventa un’arma per attirare masse di persone verso un sistema ormai politicamente polarizzato.

In America ad esempio, dove la destra estrema non dialoga con la controparte di sinistra, Facebook funziona come altrove come cassa di risonanza, appiattendo volontariamente alcuni contenuti, per enfatizzare invece solo quello che l’utente vuole leggere e ascoltare. Una riscoperta della teoria della selettività nella comunicazione di massa Anni 40-60 del Novecento, che analizzava la frammentazione dell’ audience spiegando come gli individui in presenza di messaggi non coerenti con le proprie attitudini preesistenti tendano a sottrarvisi e a optare per informazioni coerenti con quelle già possedute, per difendere le proprie posizioni e marcare un’identità sociale.

Il social network funge proprio da giornale personalizzato che offre agli iscritti una visione personalizzata del mondo, attraverso l’uso di algoritmi e formule matematiche che generano contenuti interessanti, per indurre il pubblico a scorrere costantemente pagine ed esprimere consensi. E proprio il tasto “Mi piace” è stato congeniato per ricavare grandi mole di dati e funzionare da traino al prodotto, diventando una sorta di lubrificante sociale.

La più grande risorsa nella mani di Zuckerberg e del suo staff di professionisti sono i nostri dati in rete e tutte le informazioni che forniamo attraverso le attività svolte, i luoghi frequentati, i percorsi in auto, gli acquisti, gli sport e i viaggi praticati, i cibi consumati, fino all’orientamento sessuale, politico e religioso. E’ questa la potenza dei GAFAM, acronimo per i giganti della rete, Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, temuti da governi e organizzazioni internazionali, lobbisti e leader politici, per i risvolti negativi che negli ultimi anni sono sotto i riflettori degli Stati.

La problematica da gestire con Facebook e con gli altri colossi sotto accusa, ruota intorno alla normativa vigente che ha permesso nel tempo all’ economia di Internet di crescere e prosperare, visto che non si sono ritenute queste società responsabili di contenuti che violano la legge. La prospettiva libertaria rappresentata dal mondo virtuale si scontra con il controllo dei fenomeni degenerativi che corrono veloci sulle piattaforme, come la violenza, l’istigazione all’odio e le forme di radicalizzazione che hanno l’obiettivo di rendere ingovernabile il sistema, generare disorientamento e divisioni sociali.

Vale soprattutto per quei Paesi dove le istituzioni democratiche sono fragili o inesistenti e la corruzione dilaga, come le Filippine, dove nel 2017 è scoppiato un caso sul social di profili finti e utenti pagati per diffamare gli oppositori del Presidente Duterte, un esempio lampante di utilizzo distorto di Internet per intimidire la masse e manipolarle. E così è stato analogamente l’anno successivo per lo scandalo Cambridge Analytica, la società di consulenza britannica che ha violato 50 milioni di dati sugli utenti Facebook per influenzare l’andamento delle campagne elettorali.

L’azienda di Zuckerberg ha dovuto almeno pubblicamente dichiarare di essere corsa ai ripari attraverso la creazione di nuove strutture e figure professionali in grado di compiere un controllo sui contenuti per proteggere la sicurezza degli utenti e controllare l’informazione sulla piattaforma che domina ormai l’universo mediale. Ne è un esempio il centro di Manila nelle Filippine dove un team locale prende importanti decisioni editoriali su Facebook, fungendo da moderatore di contenuti, decidendo cioè se gli utenti debbano o meno vedere un’immagine o un determinato contenuto. Questi esperti che lavorano nell’anonimato e condividono solo internamente il proprio operato, hanno un margine di errori commessi sulla loro scelte molto basso, e che oscilla nell’ordine di tre post mensili.

Recentemente poi Andy Stone, un portavoce di Facebook, ha comunicato che la società nell’ambito della “Redirect Initiative”, ha lanciato l’iniziativa Life After Hate contro l’odio in rete, un esperimento da condurre con un gruppo di iscritti alla piattaforma negli States, chiamati anonimamente a segnalare profili ritenuti sospetti e di matrice estremista. Le sfide sono molteplici e di difficile gestione, ma è chiaro che il ruolo del social è stato sempre più decisivo nell’informazione, basti pensare al suo contributo nelle Primavere Arabe del 2011, dalla Tunisia al Marocco ed Egitto e sulla tenuta dei rispettivi regimi autoritari.

La rete può essere anche il viatico per legittimare divisioni interne e riaccendere istanze di pulizia etnica, come per i musulmani del Myanmar vittime di meme virali degradanti. Forse allora quella mission iniziale alla base del successo di Facebook, di creare comunità, relazioni, dar voce alle persone per “rivoluzionare il mondo”, ha condotto a un imprevedibile risvolto avverso che rischia di ritorcersi contro il suo ideatore e sui suoi consumatori. Gestire troppi elementi su un numero ingente di persone può portare inevitabilmente a sacrificare l’etica in nome del profitto e la privacy per il marketing. Come per i nostri dati che vengono condivisi con parti terze e diffusi a nostra insaputa a fini predittivi e di induzione al consumo.

Marita Langella

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