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Con il cuore a Mignano Monte Lungo

Prologo

“MORTUI UT PATRIA VIVAT”. La frase, a caratteri cubitali, troneggia nella parte alta del sacrario militare di Mignano Monte Lungo, che accoglie le spoglie di 974 soldati italiani, 784 dei quali caduti nelle battaglie di Monte Lungo e Cassino.
Nel piccolo centro in provincia di Caserta, l’otto dicembre 1943, per la prima volta dopo l’armistizio dell’otto settembre, una unità di combattimento dell’Esercito italiano,  allora ancora “regio”, combatté al fianco degli Alleati contro i tedeschi, aprendo la strada verso Roma. Ogni anno, la terza domenica di novembre e l’otto dicembre, si tengono due toccanti cerimonie commemorative: la prima è organizzata dall’Associazione nazionale bersaglieri; la seconda dallo Stato maggiore dell’esercito.
Quest’anno, purtroppo, a causa della terribile pandemia in atto è stata annullata la cerimonia dell’ANB e si terrà in forma molto ristretta la seconda, senza la partecipazione del pubblico.

Un po’ di storia

Dopo la firma dell’armistizio, che sancì il disimpegno dell’Italia dall’alleanza con la Germania e la resa incondizionata agli Alleati, contrariamente a un diffuso luogo comune, non si registrò il celeberrimo “tutti a casa” reso famoso dal bel film di Comencini: molti soldati, infatti, ritennero di accogliere l’invito a combattere contro i tedeschi, che avevano occupato militarmente gran parte del Paese.

A San Pietro Vernotico, non lontano da Brindisi (dove erano scappati il re e i vertici militari), fu istituito, pertanto, il Primo Raggruppamento Motorizzato, prima unità del neonato Esercito cobelligerante italiano, strutturata come brigata e composta da due battaglioni della brigata “Legnano”, dal II battaglione bersaglieri allievi ufficiali di complemento, dall’11° reggimento artiglieria, dal V battaglione controcarri, da una compagnia mista del genio e da una unità di servizi.

Il comando fu affidato al generale Vincenzo Dapino, sostituito nel gennaio 1944 dal generale Umberto Utili. Il 14 novembre il raggruppamento, trasferitosi dalla zona di Brindisi a quella di Avellino, fu posto a disposizione del Generale Keyes, Comandante del II Corpo d’Armata statunitense.

All’inizio si dovette superare l’ostracismo del comando alleato, che proprio non ne voleva sapere di conferire all’Italia il ruolo di cobelligerante. Sui libri di storia si adduce siffatto comportamento alla scarsa considerazione tributata ai soldati italiani, ritenuti poco combattivi. In realtà, se non si può negare che taluni ufficiali, per mero pregiudizio, si esprimessero con termini dispregiativi, chiunque avesse sperimentato sulla propria pelle, in Nord Africa, il valore e il coraggio dei soldati italiani, la pensava molto diversamente.

Bisogna mettere insieme molti tasselli, pertanto, per ben dipanare una matassa davvero intricata. Tutto nasce dalle trattative intercorse dopo la caduta di Mussolini, durante le quali i rappresentanti del governo Badoglio, in modo posticcio, approssimativo e spesso contraddicendosi gli uni con gli altri, stupirono negativamente gli interlocutori con richieste assurde, come se fosse la cosa più naturale del mondo pretendere di conoscere i piani militari, stabilire accordi imponendone le condizioni e addirittura suggerire cosa fare, prima ancora di aver sottoscritto una resa senza condizioni. In particolare fece nascere molte perplessità sulla serietà del vertice politico e militare – attenzione: vertice politico e militare, non i soldati che combattevano al fronte – il pittoresco generale Castellano, incaricato di firmare l’armistizio a Cassibile.

Castellano era una vera “macchietta” e il classico pallone gonfiato che si riteneva un genio, la qual cosa saltò subito agli occhi degli interlocutori. Qui basti dire che, quando gli veniva presentato qualche alto ufficiale inglese o americano, al classico scambio di saluti che intercorre durante una presentazione, invece di rispondere “piacere” (non spiccicava una parola di inglese), rispondeva, in ossequio al suo stupido complesso di superiorità, con un  appena percettibile “int o’ cul”, dagli interlocutori scambiata come espressione italiana usata per la circostanza. Se la riluttanza, quindi, può essere attribuita a molti rami, di sicuro questo aspetto ne costituisce il tronco. Fatto sta che, anche dopo la costituzione della brigata, l’atteggiamento degli Alleati, al di là delle apparenze formali sciorinate per uso mediatico, non fu mai improntato a un convinto sostegno, foriero del necessario supporto di mezzi e armamenti. I soldati ricevettero una divisa estiva, destinata alle truppe dislocate in Africa settentrionale, dove le ostilità erano cessate nel mese di maggio.

L’armamento era deficitario sotto qualsivoglia punto di vista e, in massima parte, il fucile in dotazione era ancora il vecchio moschetto 91. Insufficiente e scadente il vettovagliamento, soprattutto se comparato a quello destinato alle truppe anglo-americane. Mancavano anche le scarpe e i mezzi di trasporto. Il generale Dapino si adoperò con fermezza per alleviare la sofferenza degli uomini che, è bene precisarlo, agivano come “volontari”. Protestò con veemenza, ma inutilmente, con lo stato maggiore, affinché ai soldati fosse assegnato un compenso decente, sopperendo al diniego in prima persona, con un assegno straordinario di dieci lire per i soldati e diciotto lire per i marescialli.

L’encomiabile impegno, che ben presto fu noto a tutti, indusse il comando statunitense ad assegnargli una tabella viveri analoga a quella riservata ai propri soldati, priva, però, dei generi di conforto come il vino e le sigarette. A questo punto Dapino fece sapere che, in mancanza di rifornimenti, avrebbe provveduto a comprare personalmente ciò che mancava alla truppa, rampognando senza giri di parole i superiori: “Soldati che vivono per più giorni in posizioni di montagna, al freddo e alla pioggia, senza poter fare la tenda e confezionare il rancio e sottoposti a continue azioni di fuoco dell’avversario, e reparti che fanno faticose corvée notturne per trasportare in linea munizioni, viveri ed acqua non svolgono attività a favore degli Alleati ma rappresentano le sole truppe dell’Esercito Italiano che presentemente stanno combattendo”.

Dopo la fase iniziale di addestramento e “organizzazione” (si fa per dire) a Brindisi, il reparto italiano fu trasferito ad Avellino. Nei giorni 25 e 26 novembre, sotto una pioggia battente, in quel di Montesarchio, fu effettuata un’articolata esercitazione alla presenza di molti ufficiali alleati e del generale Keyes. Il riscontro fu molto positivo, anche se non si mancò di sottolineare l’inadeguatezza dell’abbigliamento (estivo!) e dell’armamento, senza peraltro fare nulla per porre rimedio a questa palese incongruenza.

Nondimeno, il tre dicembre arriva l’ordine tanto atteso: il reparto italiano avrebbe partecipato allo sfondamento della Linea Bernhardt, nella zona di Monte Lungo, pochi chilometri a sud di Cassino. All’alba dell’otto dicembre, dopo un breve appoggio dell’artiglieria, fanti e bersaglieri mossero in direzione delle difese nemiche, puntando su “quota 343”, eseguendo alla lettera gli ordini ricevuti e mantenendosi compatti sulla direttrice d’attacco. Una nebbia fitta ostacolava l’avanzata, senza costituire motivo di preoccupazione per i nostri soldati: i nemici “erano di fronte”, in numero non eccessivo, secondo le informazioni ricevute, e l’avanzata era ben protetta dagli americani, stanziati sul vicino Monte Maggiore.

Quando la nebbia si diradò, però, prese corpo l’amara realtà: i tedeschi sbucarono da ogni dove e, soprattutto, avviarono un micidiale fuoco laterale da quel Monte Maggiore che si presumeva fosse nelle mani dei soldati americani. La battaglia si trasformò in un massacro e il morale delle truppe precipitò ai minimi termini. Una superficialità spaventosa in fase preparatoria accompagnò la prima sortita del neonato esercito italiano, costretto a una repentina ritirata. Superficialità o “altro”?

La battaglia di Monte Lungo è ancora oggi oggetto di controversie interpretative e non sono pochi gli storici che sostengono la tesi di una precisa volontà del comando alleato nel non predisporre un adeguato piano di battaglia, in modo da non consentire agli italiani di esordire con un successo eclatante, che comunque si registrò all’alba del 16 dicembre, quando i nostri bersaglieri riuscirono a espugnare il monte, costringendo i tedeschi alla ritirata. Questa volta non giunsero soprese dal laterale Monte Maggiore, ben saldamente nelle mani degli americani.

Occorreranno ancora sei mesi di dure battaglie prima di liberare Roma dai tedeschi, che erano riusciti sorprendentemente a occuparla nei giorni successivi all’armistizio, nonostante una massiccia inferiorità delle truppe a disposizione, grazie all’ignominiosa condotta del governo e del vertice militare italiano.                         

A Monte Lungo, intanto, nel commosso ricordo dei caduti, si comunicano ai superstiti i messaggi di congratulazioni inviati dai generali Clark e Keyes, nonché dal generale Messe, capo di stato maggiore generale del neonato Esercito cobelligerante italiano.

Nel 1956, ultimata la costruzione del sacrario, si provvide alla traslazione dei caduti, in precedenza sepolti nel vicino cimitero di Peccia.

L’auspicio

Il generale Ippolito Gassirà, delegato regionale dell’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia e presidente della sezione di Caserta, è l’indomito organizzatore di tanti eventi storico-militari in Campania e non manca mai di ricordare l’importanza di quei giorni fatidici del dicembre 1943, che sancirono la rinascita dell’esercito con un successo straordinario conseguito in condizioni di palese inferiorità logistica, superata grazie alla ferma determinazione e al grande coraggio di soldati che avevano, come unico scopo, quello di riscattare la dignità della nazione.

“Sarebbe  bello – dichiara il generale – se Monte Lungo potesse godere di maggiore attenzione mediatica e magari essere inserito in un circuito nazionale delle  gite scolastiche, per insegnare alle giovani generazioni pagine di storia ancora oggi esclusivo appannaggio degli studiosi. Sarebbe questo davvero un bel modo per onorare la memoria di coloro che sacrificarono la loro vita per il bene supremo della patria”.

Encomiabile proposito, quello del generale Gassirà, che dovrebbe indurre soprattutto i cittadini di Mignano Monte Lungo a creare i giusti presupposti per un concreto sviluppo zonale, dando vita ad adeguate strutture ricettive e ad eventi che vadano oltre il pur doveroso contesto commemorativo, inglobando approfondimenti storici di più ampio respiro. Capire chi siamo, da dove veniamo e soprattutto cosa dobbiamo, nel bene e nel male, a chi ci abbia preceduto,  è sempre il modo migliore per non perdersi in quel tortuoso cammino che si chiama vita.

                                                                           Lino Lavorgna

 

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