Era il 24 ottobre del 1945 quando con la Carta di San Francisco si sanciva la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, l’Onu. Lo scopo era di superare l’esperienza tragica della guerra nel cuore dell’Europa, abbandonare gli estremismi e perseguire valori di uguaglianza, pace e sicurezza collettiva.
Da quella data in poi, passando per il processo di decolonizzazione dei Paesi africani (1960), il diritto internazionale, espressione di accordi tra Stati, ha compiuto sforzi significativi nel riconoscimento dei diritti umani.
Un concetto che racchiude in sé ogni forma di tutela e manifestazione della dignità e delle libertà fondamentali di cui ogni individuo gode in quanto essere umano. Diritti di carattere economico, sociale, culturale, civile e politico, universali, inalienabili e indivisibili.
Questo l’assunto di partenza per comprendere un vasto corpo di documenti internazionali, dichiarazioni, convenzioni e norme consuetudinarie inderogabili per gli Stati, che vietano il genocidio, l’aggressione, la schiavitù, la tortura, l’apartheid e tutelano l’auto determinazione dei popoli.
Eppure per l’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo in Europa, più di 2 miliardi di persone nel mondo corre ancora oggi il rischio di trovarsi in contesti fragili e pericolosi, per cause molteplici, tra queste le violenze e i conflitti. Il 2 dicembre si celebra ogni anno la Giornata internazionale per l’abolizione della schiavitù voluta dall’ONU, data che coincide con la sua abolizione, ma che oggi invece assume forme e pratiche tutt’altre che superate.
Sono più di 40 milioni nel mondo coloro che sono soggetti a pratiche schiavizzanti come il lavoro forzato, la servitù per debiti, i matrimoni imposti e il traffico di esseri umani. Sfruttamento e coercizione da cui non ci si riesce a sottrarre a causa di minacce, violenze, abuso di potere, inganni. E nonostante le Nazioni Unite abbiano adottato nel 2016 un Protocollo vincolante per potenziare gli sforzi globali ed eliminare il lavoro forzato, i dati sono impietosi.
Perché a essere colpiti sono soprattutto donne e bambini, gruppi vulnerabili, minoranze considerate inferiori e popoli indigeni. Realtà presenti in quadranti geopolitici affetti da ritardi di sviluppo, in cui i beni pubblici globali, risorse, servizi, merci e condizioni sanitarie, sono la sfida quotidiana in ambito di cooperazione internazionale.
Il sottosviluppo è la principale causa dei conflitti e della violenza, oltre che la condizione ideale su cui agiscono forme di sfruttamento che vanno dalla tratta di persone, alla prostituzione minorile, le prestazioni forzate, fino al prelievo degli organi.
E mentre ingenti capitali pubblici e privati convergono ogni anno in programmi di aiuti e incentivi in aree del mondo in via di sviluppo, lo sforzo congiunto tra Stati, Ong, associazioni filantropiche, multinazionali, Oig, Onlus, fondazioni e associazioni, dovrà orientarsi verso forme di interdipendenza.
Sulla strada dell’accelerazione dello sviluppo economico dei Paesi a basso reddito, del miglioramento generale del benessere delle popolazioni e di tutte quelle politiche globali che creano condizioni di vita funzionali allo sviluppo umano.
Marita Langella
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