Il nostro pianeta sta diventando sempre più caldo. Non è purtroppo sinonimo di luminoso o accogliente, ma indicazione di temperature che si innalzano per effetto dell’inquinamento atmosferico.
A dirlo è il Copernicus climate change service (C3s), il centro europeo per le previsioni meteo a medio termine, che ha individuato nel 2020 appena trascorso l’anno più caldo mai registrato assieme al 2016.
Un aumento di 1,25° C rispetto al periodo pre-industriale, in chiusura di un decennio che ha visto solo in Europa 0,4° C in più rispetto al 2019, accompagnato dalla crescita di emissioni di CO2 che a maggio 2020 hanno toccato i 413 ppm. Artico e Siberia settentrionale le aree a nord del mondo più colpite dal riscaldamento globale con deviazioni dalla media di 3° C, che ha influito sugli incendi siberiani e sulla riduzione del ghiaccio marino artico nei mesi di luglio e ottobre del 2019, mai così preoccupante.
Questa analisi impone riflessioni su scelte e politiche che devono arginare impatti climatici negativi da adottare in prospettiva futura. Il degrado ambientale è una delle minacce allo sviluppo economico e sociale e alla riduzione della povertà. I disastri naturali ormai frequenti sono l’effetto dell’erosione del suolo, della distruzione delle foreste, dell’esaurimento dei corsi d’acqua e della biodiversità, con un impatto sulla produttività agricola, sulla pesca e non da ultimo sulla salute e sul benessere della popolazione.
L’industrializzazione, cifra del progresso lineare e della crescita economica fino al XX secolo, è stata incentrata sullo sfruttamento di risorse non rinnovabili e sull’utilizzo di un sistema naturale oltre la sua capacità di rigenerazione ciclica.
Smontare un paradigma assunto alla luce di una coscienza ambientale, è stato uno sforzo piuttosto recente iniziato negli Anni 70 del 900, quando in ambito di Nazioni Unite si è coniugato il concetto di sostenibilità dello sviluppo. Un modello abbracciato dai 193 Paesi ONU, che armonizza i bisogni presenti con il rispetto delle risorse delle generazioni future, investimenti e scelte ponderate, innovazione e analisi degli impatti ecologici.
Sostenibilità come cornice interpretativa, un abito con cui vestire ogni settore, da quello sociale, economico, ambientale e tecnologico, e che è diventata la lente con cui guardare agli obbiettivi fissati dalla comunità internazionale nel corso degli anni.
Dal Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992 per l’ambiente e lo sviluppo, alla firma del protocollo di Kyoto del 1997 per ridurre le emissioni di anidride carbonica a partire dal 2005, fino ai Millennium Development Goals firmati a New York nel 2000, il cui raggiungimento erano fissati al 2015. Ma quel traguardo è stato scavalcato ormai dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvato dall’assemblea generale dell’ONU, nel segno delle 5 P: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership.
Perché sviluppo è più di crescita, è libertà di scelta, è un approccio che si spinge oltre gli indicatori forniti dal PIL, è la capacità di azione, è una visione multidimensionale che mette al centro l’uomo, i suoi bisogni, le sue inclinazioni, potenzialità, aspettative e possibilità di costruire una vita piena. Un concetto espresso da alcune teorie in ambito di Cooperazione allo sviluppo sul finire degli Anni 80 del secolo scorso, primo l’economista indiano di Harvard e premio Nobel nel ’98, Amartya Sen.
Lo studioso inquadra gli indicatori di sviluppo umano, sanità, istruzione e reddito in un più ampio perimetro di rispetto per la vita umana, attenzione alle condizioni sociali di disagio, rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di ciascuno. Supportare gli sforzi dei Paesi in via di sviluppo per garantire i servizi sociali di base, come acqua potabile, vaccinazioni e cure mediche, istruzione e corretta nutrizione, deve contemplare una visione di lungo periodo tarata su reali necessità.
Senza dimenticare poi che spesso povertà e degrado ambientale sono due aspetti speculari soprattutto tra le popolazioni rurali povere dove la necessità di sopravvivenza giornaliera, la carenza di risorse, la pressione demografica e la scarsa abilità tecnica, rendono le pratiche insostenibili e i contesti più vulnerabili ai problemi naturali. Per questo nei contesti a sud del mondo l’aiuto all’ambiente a livello globale supera l’80% del totale, con in testa donatori come Giappone, Germania e Stati Uniti.
La speranza è che nei Paesi industrializzati si possa implementare quella coscienza che vada oltre la percezione del ruolo che l’ambiente ricopre nello sviluppo economico e sociale interno. Il cambio di rotta avviato negli Anni 90 deve continuare sulla strada della responsabilità e della sostenibilità delle politiche in campo. In gioco ci sono vite umane, spazi vitali, risorse scarse e realtà vulnerabili da preservare.
Marita Langella